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Infermiere in Inghilterra... andata e ritorno

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 15/01/2014 vai ai commenti

Le interviste

  01_Houses_of_ParliamentLa storia che vogliamo raccontare attraverso alcune domande è quella di un professionista che come tanti colleghi italiani sceglie di “emigrare” ed andare a lavorare nella patria della fondatrice dell’infermieristica ovvero in Inghilterra. Ci interessa questa storia perché ci può aiutare a capire e comprendere quali sono le ragioni che muovono un giovane infermiere ad andare fuori dal proprio Paese. Quali sono le aspettative? Cosa ha trovato e cosa si aspettava? Cosa riporta in patria? E’ bello poter condividere insieme un “pezzo” di vita lavorativa e non solo… La parola al collega Adriano Vàcconee alla sua esperienza.

 

1)    Adriano, cosa ti ha spinto e quali aspettative avevi nel bagaglio di andata? Come infermiere italiano hai trovato ostacoli? Burocratici, linguistici, di convivenza?

La decisIone di emigrare all’estero non è partita principalmente da me, ma dal mio compagno. Vista la crisi in Italia ed i problemi del suo lavoro (lui è in tutt’altro settore), abbiamo optato per il Regno Unito, in particolare Londra, perché ci sembrava la “Big Apple”. Essendo uno strumentista, figura molto ricercata qui nel Regno Unito, ma un po’ come ovunque, non ho avuto particolari problemi a proiettare il mio futuro professionale oltremanica. L’aspettativa ovviamente era quella di trovare una nazione all’avanguardia, specialmente nella sanità. Come italiano vieni subito accettato, anche se vige sempre la puzza sotto al naso perché si è latini e non anglosassoni. Problemi burocratici ne ho avuti sempre: la burocrazia è simile a quella italiana se non peggio alle volte e come in Italia vinci se fai la voce grossa. Fortunatamente, per via di regole europee, il titolo di studio infermieristico viene riconosciuto automaticamente, previo presentazione della documentazione richiesta all’NMC (Nursing & Midwifery Council, in pratica l’Ipasvi britannico). La lingua è stata un problema all’inizio, specialmente al lavoro: anni ed anni di studi non ti preparano ai termini quotidiani che si usano. Alcune cose le avevo già apprese su libri di testo specifici per infermieri che studiano l’inglese. Ma è stato ogni giorno una nuova scoperta, ed è sicuramente questa la grande ricompensa che mi porto a casa.

 

2)    Puoi raccontarci il tuo primo giorno in un ospedale Inglese?

Ci sono tre primi giorni da raccontare, relativi all’ospedale: il primo, appena arrivato, è stato presso l’Occupational Health, la medicina del lavoro. La collega inglese che mi ha prelevato il sangue non ha disinfettato la zona della venipuntura. Già da lì dovevo capire molte cose…! Comunque, la collega in questione che mi ha ricevuto non posso dire avesse chissà quale autonomia: ha solo ricontrollato i documenti che avevo in possesso ed inviato i campioni in laboratorio. Ha anche sbagliato a scrivere l’indirizzo (l’ha copiato, non glielo avevo dettato) e quindi i risultati li ho ricevuti dopo circa tre mesi. Poi c’è stata la famosa Induction: una serie di giornate dove ti preparano per il lavoro: ti presentano l’azienda, le condizioni contrattuali. Poi ti fanno alcune lezioni per rinfrescare le conoscenze e conoscere le politiche riguardo le trasfusioni di sangue, la movimentazioni dei carichi, le norme igieniche, la farmacologia… Per me è stato molto istruttivo perché ho vissuto quelle giornate come un gran training linguistico. Ma mi meravigliavo dell’ignoranza di alcuni colleghi inglesi, anche giovani e neolaureati, in merito a certe materie cliniche. Altri colleghi stranieri come me, tedeschi, spagnoli, portoghesi, erano invece preparatissimi. Il primo e vero giorno di lavoro in ospedale, in sala operatoria, è stato memorabile per il semplice fatto che avevo la febbre a 40° C! Mi ero ammalato dato il clima e mi era sembrato scortese iniziare mettendomi in malattia. È stato uno sforzo disumano resistere e capire cosa mi venisse detto, ma ce l’ho fatta! Piccola parentesi sulla malattia: i primi sette giorni di una malattia sono autocertificati, cioè non c’è bisogno di andare dal medico per farsi certificare lo stato di malattia. Però a differenza dell’Italia, dove non si sognerebbero mai di chiederti che cos’hai, qui ti sommergono di domande, del tipo “che cos’hai?” “che sintomi hai?” “che medicine stai prendendo?”, e debbo ammettere che l’ho trovato inaccettabile (sono stato malato solo un giorno e mi ero anche presentato al lavoro, lo scorso settembre, con due occhi che arrivavano a terra e mi ha tremendamente infastidito questa violazione della privacy).

 

3)    Quali pregi e difetti puoi rammentare del sistema Inglese? Ci sono cose che porteresti in Italia? E cose che lasci in Inghilterra?

In generale il sistema inglese, paragonato a quello italiano, è mediocre ed in alcuni casi obsoleto. La carenza d’igiene è la prima cosa che si denota. L’organizzazione è pessima e terribilmente gerarchica. La turnistica lascia poco tempo per riposare: il riconoscimento economico è accettabile solo nella sanità privata, ma alle volte si paga a caro prezzo cioè con privazione del proprio tempo libero al di fuori dell’ospedale. A parte il linguaggio tecnico-scientifico un po’ più appropriato e qualche soldo messo da parte, non porto nulla di positivo in Italia.

 

4)    Il rapporto infermiere medico è diverso da come siamo abituati a "sentirlo e viverlo" in Italia?

Il rapporto professionale è anche questo peggiore: l’infermiere è ben visto dalla società ma mal visto dalla classe medica a causa del livello formativo di base britannico. Il medico la fa da padrone come in Italia. Però c’è una cosa che in Italia fanno in pochi e che qui invece è all’ordine del giorno: la COMPLAINT, ovvero, il richiamo. Un infermiere può tranquillamente fare un richiamo scritto presso la direzione se l’atteggiamento del medico non è appropriato agli standard. Ma parliamo di atteggiamento purtroppo. In quel caso la direzione richiama all’ordine il medico, che la maggior parte delle volte continuerà a pensar male della classe infermieristica, ma almeno avrà la decenza di non esprimerlo. Ovviamente la complaint è a doppio senso, quindi anche i medici possono lamentarsi dell’atteggiamento degli infermieri. Se invece alla base della “disputa” c’è un errore professionale, in quel caso entra in gioco DATIX, ovvero il sistema di gestione del rischio, che qui nel Regno Unito è protocollato e capillare, per cui qualsiasi errore viene immesso nel sistema, valutato ed eventualmente risolto entro un termine di tempo stabilito di cinque giorni.

 

5)    Com'è strutturato l'organigramma di un reparto in Inghilterra?

Posso descriverti com’è strutturato l’organigramma delle sale operatorie, ma nelle unità di degenza non si scosta tantissimo. Partiamo dalla base della piramide: ci sono due figure di supporto, il theatre assistant, che equivale al nostro ausiliario, ed l’healthcare assistant, che è il nostro oss. Il primo non l’ho trovato nella prima struttura dove ho lavorato, il Portland Hospital, quindi ci toccava lavare la sala operatoria al termine di ogni intervento. E se di interventi programmati ne hai dieci o dodici, è un lavoro ben duro da fare, dopo aver preparato il tavolo operatorio, strumentato l’intervento con il chirurgo, controllato la burocrazia ed essere andati a dare consegna ai colleghi della recovery room. Poi ci sono i Registered Nurse, ovvero noi infermieri, seguiti dai senior. Questa denominazione viene rilasciata e ricompensata economicamente quando, dopo tre anni di lavoro presso tale dipartimento, si supera un colloquio selettivo per verificare la validità dell’attribuzione quale senior, che da noi sarebbe come dire “esperto”. Qui nel Regno Unito esiste poi un’altra figura, l’ODP, operating department practitioner. È in pratica una figura sanitaria che può lavorare solo in sala operatoria ed ha una formazione decisamente minore rispetto ad un infermiere, tant’è che la loro retribuzione può essere anche la metà di quanto percepito dai RN. Ancora più in alto c’è il Nurse in charge ed il Sister. Sono due denominazioni che in genere vengono attribuite a chi fa il lavoro di coordinatore, chi organizza la quotidianità lavorativa del dipartimento: turnistica, ferie, collocazione nelle sale, rapporti con la direzione. Ancora più in alto c’è la direzione, composta da un director o deputy manager ed il manager vero è proprio. Questo solo per quanto riguarda un dipartimento. Poi al vertice c’è la figura del Matron, che è in pratica il direttore infermieristico. Provate adesso ad immaginare questo per ogni unità di degenza, ogni servizio o sala operatoria e capirete perché dico che il sistema è terribilmente gerarchico visto che un “semplice” RN non ha autonomia nel cambiare una virgola, ma deve seguire i rigidi standard disposti dall’azienda e dall’NMC. Un capitolo a parte andrebbe dedicato all’infermiere ASN, cioè advanced scrub nurse, lo strumentista specializzato, che ha come “privilegio” quello di assistere il chirurgo con le seguenti MANSIONI: divaricare i lembi, aspirare il sangue, tamponare con garze e tagliare il filo di sutura dopo che il chirurgo ha dato il punto. È una qualifica che si ottiene dopo un master di circa un anno, ma che per uno strumentista italiano è totalmente superflua in quanto le MANSIONI descritte sono nell’ordine del proprio lavoro quotidiano. Ovviamente vi è un riconoscimento economico anche per questa figura.

 

6)    E' consuetudine acquisita la "famosa" prescrizione infermieristica?

Io non l’ho mai vista praticare. Però posso dire che un infermiere neoassunto è inibito a somministrare la terapia poiché deve prima essere valutato dal mentor (tutor). Dopo qualche mese potrà iniziare a somministrare la terapia. Non vi è libertà di scelta nemmeno nell’orario di somministrazione, pena l’apertura di una segnalazione su Datix.

 

7)    Rifaresti la tua esperienza? In futuro cosa pensi di fare? E può questa tua esperienza esserti di aiuto nel tuo lavoro professionale qui in Italia?

Sicuramente è un’esperienza che andava fatta, non fosse altro che per apprezzare di più il sistema italiano e la propria formazione. Adesso, dopo un anno di lavoro qui a Londra, presso due sale operatorie, io ed il mio compagno abbiamo deciso di tornare a casa. Di certo non porto nulla di nuovo riguardo la specialità chirurgica dalla quale provengo, ovvero la neurochirurgia.

 

8)    Il consiglio o un augurio che ti senti di rivolgere ai colleghi che si accingono ad intraprendere un'esperienza all'estero

Un’esperienza all’estero secondo me è formativa, al di là dell’Erasmus. Ci si confronta e se si può, si matura professionalmente. lo sconsiglio il Regno Unito per i colleghi che hanno già svariati anni d’esperienza alle spalle, perché si scontrerebbero con le rigide regole e standard britannici. Lo consiglio invece  solo se si è interessati ad una maggiore retribuzione, cosa che qui non manca, ma con la premessa iniziale di dover sacrificare molto tempo alla propria vita. Le soddisfazioni poi sono personali ed ognuno è libero di fare come meglio crede. Un ultimo consiglio: non venire qui nel Regno Unito se non si ha una buona preparazione linguistica: a livello professionale non se ne trarrà vantaggio perché c’è poca tolleranza verso chi non capisce l’inglese.  

 

(di Chiara D'Angelo e Marco Alaimo)