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10 febbraio. Ricordando LE FOIBE, la Strage dimenticata...

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 10/02/2017 vai ai commenti

NurSind dal territorio

L’Olocausto è stato senza dubbio il più tragico evento della nostra storia, la scientifica pianificazione e sistematica realizzazione della più infame e vigliacca declinazione dell’odio razziale.

L’immensità di questa tragedia è scavata nella carne delle nostre generazioni e le cicatrici sono vive e doloranti anche oggi, a distanza di oltre settant’anni.

Al finire della seconda guerra mondiale, che ha cullato nel suo grembo questo mostro, un’altra immane tragedia si è consumata, nella dolosa disattenzione delle Istituzioni costituende, che avrebbero portato l’Europa, occidentale, al modello democratico che oggi conosciamo.

Dopo anni di indifferenza e di mistificazione di quell’atroce dramma, velate da una giustificazione ideologica che, proprio per questa sua natura, è ancor più reietta, qualcuno ha finalmente avuto il coraggio di dire la verità, di rompere quel velo di sangue e di meschinità: ed il dramma delle “Foibe” è emerso nella sua reale dimensione, nella sua reale atrocità.

Nei giorni della Liberazione, mentre le truppe alleate riconsegnavano a un Paese martoriato dal nazifascismo i germogli fecondi della democrazia, in quel pezzetto d’Italia ceduto alla Jugoslavia le truppe dei partigiani titini portavano a compimento un immondo insulto alla libertà tanto cercata per 6 lunghi anni.

Nascosti nella nebbia della capitolazione del regime nazifascista gli scagnozzi del Maresciallo Tito hanno massacrato migliaia di italiani, “colpevoli” di essere italiani o semplicemente anticomunisti. Una vera e propria pulizia etnica, mascherata da guerra o lotta antifascista, con cui il regime comunista jugoslavo ha voluto “liberare” dagli italiani e da chi non accettava la dittatura comunista le terre ottenute in cambio del proprio contributo alla guerra al nazifascismo.

Una strage compiuta nell’indifferenza dell’Italia liberata, e per moltissimi, troppi anni, tenuta nascosta e, cosa ancor più becera, inqualificabilmente mistificata, nel tentativo di una qualche improbabile quanto miserrima “interpretazione” giustificativa.

Sono oltre 10000 le vite spezzate sul fondo delle cavità carsiche in cui i titini hanno gettato, molte volte ancora vivi, uomini, donne, anziani e bambini. Il terrore invadeva l’Istria mentre la gioia pervadeva il resto d’Italia; 350mila furono i profughi istriani, fuggiti da quel lembo di terra che un tempo fu la Venezia Giulia italiana. In fuga dallo sterminio, nella forzata ricerca di un futuro in cui ricominciare a vivere da zero, dove lo zero era una vita lasciata alle spalle oltre quella stretta lingua di mar Adriatico, ed un viaggio verso uno dei 109 campi profughi in cui migliaia di famiglie condividevano il nulla e la speranza di un domani.

Un orrore troppo a lungo nascosto su cui cominciò a dissolversi la cortina di silenzio agli inizi degli anni ’90, quando durante la disfatta dei regimi comunisti europei i Presidenti della Repubblica Italiana Francesco Cossiga, prima, e Oscar Luigi Scalfaro, poi, resero omaggio al Monumento di Basovizza, luogo simbolo della strage delle foibe dove ancora oggi non si sa quante vite furono spezzate dall’atrocità titina. Forse più di 2000, cifra tristemente calcolata in base alla riduzione del volume della cavità della foiba.

 

Si celebra oggi, 10 febbraio, la Giornata del Ricordo.

Il 10 febbraio del 2005, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, infatti, il Parlamento italiano ha dedicato la "Giornata del ricordo" ai morti nelle foibe in commemorazione delle vittime di tutti i massacri.

La Giornata del Ricordo è, quindi, dedicata alla memoria degli italiani massacrati in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia tra il 1943 e il 1947, mentre a 70 anni dai fatti, ci sono ancora dozzine di strade e piazze intitolate al Maresciallo Tito, "il boia degli italiani" alla fine della seconda guerra mondiale.

Almeno diecimila persone, negli anni drammatici a cavallo del 1945, sono state torturate e uccise a Trieste e nell'Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito. E, in gran parte, vennero gettate (MOLTE ANCORA VIVE) dentro le voragini naturali, con un ingresso a strapiombo, disseminate sull'altipiano del Carso, le "foibe".

L’Olocausto è stato senza dubbio il più tragico evento della nostra storia, la scientifica pianificazione e sistematica realizzazione della più infame e vigliacca declinazione dell’odio razziale.

L’immensità di questa tragedia è scavata nella carne delle nostre generazioni e le cicatrici sono vive e doloranti anche oggi, a distanza di oltre settant’anni.

Al finire della seconda guerra mondiale, che ha cullato nel suo grembo questo mostro, un’altra immane tragedia si è consumata, nella dolosa disattenzione delle Istituzioni costituende, che avrebbero portato l’Europa, occidentale, al modello democratico che oggi conosciamo.

Dopo anni di indifferenza e di mistificazione di quell’atroce dramma, velate da una giustificazione ideologica che, proprio per questa sua natura, è ancor più reietta, qualcuno ha finalmente avuto il coraggio di dire la verità, di rompere quel velo di sangue e di meschinità: ed il dramma delle “Foibe” è emerso nella sua reale dimensione, nella sua reale atrocità.

Nei giorni della Liberazione, mentre le truppe alleate riconsegnavano a un Paese martoriato dal nazifascismo i germogli fecondi della democrazia, in quel pezzetto d’Italia ceduto alla Jugoslavia le truppe dei partigiani titini portavano a compimento un immondo insulto alla libertà tanto cercata per 6 lunghi anni.

Nascosti nella nebbia della capitolazione del regime nazifascista gli scagnozzi del Maresciallo Tito hanno massacrato migliaia di italiani, “colpevoli” di essere italiani o semplicemente anticomunisti. Una vera e propria pulizia etnica, mascherata da guerra o lotta antifascista, con cui il regime comunista jugoslavo ha voluto “liberare” dagli italiani e da chi non accettava la dittatura comunista le terre ottenute in cambio del proprio contributo alla guerra al nazifascismo.

Una strage compiuta nell’indifferenza dell’Italia liberata, e per moltissimi, troppi anni, tenuta nascosta e, cosa ancor più becera, inqualificabilmente mistificata, nel tentativo di una qualche improbabile quanto miserrima “interpretazione” giustificativa.

Sono oltre 10000 le vite spezzate sul fondo delle cavità carsiche in cui i titini hanno gettato, molte volte ancora vivi, uomini, donne, anziani e bambini. Il terrore invadeva l’Istria mentre la gioia pervadeva il resto d’Italia; 350mila furono i profughi istriani, fuggiti da quel lembo di terra che un tempo fu la Venezia Giulia italiana. In fuga dallo sterminio, nella forzata ricerca di un futuro in cui ricominciare a vivere da zero, dove lo zero era una vita lasciata alle spalle oltre quella stretta lingua di mar Adriatico, ed un viaggio verso uno dei 109 campi profughi in cui migliaia di famiglie condividevano il nulla e la speranza di un domani.

Un orrore troppo a lungo nascosto su cui cominciò a dissolversi la cortina di silenzio agli inizi degli anni ’90, quando durante la disfatta dei regimi comunisti europei i Presidenti della Repubblica Italiana Francesco Cossiga, prima, e Oscar Luigi Scalfaro, poi, resero omaggio al Monumento di Basovizza, luogo simbolo della strage delle foibe dove ancora oggi non si sa quante vite furono spezzate dall’atrocità titina. Forse più di 2000, cifra tristemente calcolata in base alla riduzione del volume della cavità della foiba.

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La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947.

 

Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti.

A Trieste, a differenza delle altre città italiane, la liberazione alla fine della seconda guerra mondiale, è coincisa con l'inizio di un incubo: per quaranta giorni le truppe partigiane e comuniste del maresciallo Tito hanno imperversato torturando, uccidendo e deportando migliaia di cittadini innocenti.

Gli infoibati erano prevalentemente italiani, ma anche sloveni e croati. Tra gli italiani vi erano ex fascisti, ma soprattutto gente comune colpevole solo di essere italiana e contro il regime comunista.

La pulizia etnica voluta dal Maresciallo Tito, nelle zone di Trieste, Gorizia e dell’Istria, mirò a cancellare ogni segno di italianità in quelle terre. Donne, bambini, vecchi, adulti, militari del Regio Esercito Italiano, Carabinieri, Finanzieri e partigiani non comunisti, pagarono con la vita per la sola colpa di avere sangue italiano. Oltre 10.000 nostri connazionali vennero uccisi e molte altre migliaia furono costretti ad abbandonare le proprie case e le proprie terre.

 

Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba; qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri.

Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito e il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte

 

LA FOIBA DI BASOVIZZA

La cosiddetta "Foiba di Basovizza" è in origine un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d'internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.

 

Le vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, venivano prelevate nelle case di Trieste, durante i 40 giorni di occupazione jugoslava della città (dal 1 maggio 1945). A Basovizza arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate.

Ma quante furono le persone gettate nella Foiba di Basovizza? Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. Lo spazio volumetrico conterrebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime. Una cifra agghiacciante. Ma anche se fossero la metà, questa rappresenterebbe pur sempre una strage immane... e a guerra finita!

 

Il monumento della Foiba di Basovizza
Nel 1980, in seguito all'intervento delle associazioni combattentistiche, patriottiche e dei profughi istriani-fiumani-dalmati, il pozzo di Basovizza e la Foiba n. 149 vennero riconosciute quali monumenti d'interesse nazionale. Il sito di Basovizza, sistemato dal comune di Trieste, divenne il memoriale per tutte le vittime degli eccidi del 1943 e 1945, ma anche il fulcro di polemiche per il prolungato silenzio e il mancato omaggio delle più alte cariche dello Stato. Tale omaggio giunse nel 1991, anno cruciale per la dissoluzione jugoslava e dell'Unione Sovietica, quando a Basovizza si recò l'allora presidente della repubblica Francesco Cossiga, seguito due anni più tardi dal successore Oscar Luigi Scalfaro, che nel 1992 aveva dichiarato la Foiba di Basovizza "monumento nazionale".

(da: Foiba di Basovizza)

 

Furono poche le persone che riuscirono a salvarsi risalendo dalle foibe, tra questi Graziano Udovisi, Giovanni Radeticchio e Vittorio Corsi hanno raccontato la loro tragica esperienza a storici e/o emittenti televisive.

Dichiarazione di Giovanni Radeticchio:

"…addi 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all’ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno. Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Era l’ultimo ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio. Prima dell’alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all’imboccatura della foiba. Per strada ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba…"

 

 

La Giornata del Ricordo per le vittime delle Foibe è importante quanto quella della Memoria, per non dimenticare e condannare il male delle ideologie distruttive dell’uomo sull’uomo, sia quella nazi-fascista che quelle comunista o islamista.