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Nella storia degli ospedali i perché ci deve essere riconosciuta la malattia professionale

Perché riteniamo necessario che vengano riconosciute le patologie del rachide come malattie professionali specifiche degli infermieri che hanno dai 15/20 anni in su di assistenza lo spiega la storia che hanno avuto alle spalle: quella degli ambienti ospedalieri dagli anni 70 ad oggi.

Il trinomio infermiere/letto/paziente è inscindibile e farà sempre parte del rapporto di cura. Tra l’operatore e l’assistito vi è sempre di mezzo il letto, giaciglio indispensabile per chi si trova a dover sopportare una malattia. Infatti, tra i segnali della guarigione, quello dell’alzata e dell’allontanamento dal letto durante la giornata del paziente è tra i più importanti. La malattia si può dire abbia un rapporto inversamente proporzionale alla permanenza a letto; meno si sta coricati e più ci si sente bene.

La storia dei letti ospedalieri

Fino agli anni 90 i letti ospedalieri erano ancora in ghisa o ferro pesante, costituiti da tre pezzi (testata, piano a rete, pediera). Poi si decise di aggiungere l’asse rigido che evitava al paz. di sprofondare ed al personale di eseguire manovre di sollevamento inutili in quanto con la fossa centrale, tutte le manovre di sollevamento risultavano vane.

Trattandosi di letti pesanti, si cercava di evitare il trasporto del paziente con il letto, dovendosi quindi effettuare la manovra di spostamento del paziente verso i lettini volanti. Questi ultimi erano più alti del piano dei letti e quindi occorreva sollevare il paziente di peso fino a raggiungere il piano del lettino. Manovra questa, ripetuta 4 volte per ogni spostamento del paziente da e verso i servizi diagnostici o le sale operatorie o gli ambulatori.

Tra il ’90 e il 2000 si è optato per letti con strutture in alluminio, più leggeri e più facili da pulire. Comparvero i primi lettini volanti regolabili in altezza.

Fino al 2000, il piano del letto non era snodabile e quindi tutte le posizioni da far assumere al paziente nel corso della giornata si eseguivano di forza, infilando sotto il materasso cuscini o sollevatori reclinabili di ferro. In caso di posizioni declive o proclive, si trattava di sollevare il letto all’altezza adeguata da potergli infilare sotto le gambe gli zoccoli di legno predisposti a tre altezze diverse.

L’altezza del piano del letto, non potendo essere elevata trattandosi di letti fissi, doveva essere agevole al paziente per la discesa e quindi tra i 50/55 cm dal pavimento. Quindi tutte le manovre presso il letto del paziente venivano eseguite a schiena piegata e sbilanciata in avanti. Tali manovre venivano eseguite quotidianamente dal personale almeno 2 volte per paziente in occasione del rifacimento del letto al mattino e della risistemazione nel pomeriggio, ripetute per i 40/45 degenti ricoverati. Poi c’erano nel corso della giornata tutte le innumerevoli altre occasioni dovute ai bisogni di cura.

Tra i primi anni 2000 comparvero gradatamente i letti col piano snodato, alcuni dotati di manovelle sul fondo del letto, oppure semplicemente azionabili a mano dall’operatore che si ritrovava a dover sopportare il doppio peso del paziente con un braccio e del piano da rialzare dall’altro.

Dotati di ripiani in plastica rigida leggermente ruvida per non far scivolare i pezzi di materasso, sopravvissero pochi anni ai traumi ospedalieri e dovettero essere sostituiti da piani più robusti in formica che però essendo liscia, faceva scivolare i materassi lateralmente al punto che spesso i pazienti rovinavano a terra insieme ai pezzi di gomma piuma. Il vantaggio fu che per la prima volta si potevano regolare in altezza tramite pedaliere a stantuffo che sottoponevano l’operatore ad una nuova ed inconsueta manovra dovendo far forza con un piede sulla pedaliera. Il paziente subiva inevitabilmente dei colpi ogni volta il piede dell’operatore pigiava sullo stantuffo.

Da pochi anni, finalmente l’arrivo dei moderni letti elettrici, molto più pesanti a causa della meccanica complessa, ma dotati di sollevatore elettrico in ogni direzione, di grosse ruote piroettanti e di spondine incorporate. Unico difetto le dimensioni in larghezza che spesso sono superiori alla larghezza delle porte e quindi non consentono lo spostamento del paziente con il letto oltre la camera di degenza. Ancora riguardo alle dimensioni, in caso di stanze di media metratura, riducono non poco gli spazi di manovra nella camera.

La storia degli ausili

Le staffe

La staffa in dotazione sulla testata del letto è iniziata a comparire negli primi anni ’90. Questo ausilio consente di ridurre il peso da sollevare sempre che il paziente sia collaborante. In tutti gli altri casi sono sempre gli operatori a dover sollevare di peso verso l’alto il paziente, dovendo vincere anche l’attrito che incolla la pelle al materasso.

In precedenza le staffe non esistevano e le prime improvvisate risultavano poco sicure e pericolanti. Si ricorreva perciò alla forza bruta delle braccia ed al carico sopportato sulla schiena. Questa manovra veniva e viene ripetuta frequentemente durante la giornata in quanto per gravità il corpo del paziente tende a scivolare verso il basso. E’ una manovra ancor più faticosa quanto più le braccia dell’operatore sono corte ed il letto si trova ad una altezza posta sopra l’ombelico dell’operatore. La manovra, anche se condotta in due, comporta una distorsione sotto sforzo del rachide. Non era ed è infrequente ritrovarsi da soli a soddisfare la giusta richiesta dei pazienti di avere un po’ di sollievo facendosi “tirare un po’ su”. Oggi i letti elettrici evitano molte di queste manovre, ma ciò nonostante, il corpo del paziente necessita sempre di essere riposizionato verso il cuscino, cioè verso l’alto, cosa che anche i letti elettrici non consentono a meno che dispongano di un tappetino rotante motorizzato di cui non conosco attualmente l’esistenza in dotazione. Resta sempre il bisogno del paziente di sentirsi sollevato, prendere aria alle parti compresse e cambiare posizione anche di pochi centimetri,

Le spondine

Le spondine, prima di ferro e poi di alluminio, venivano applicate ai letti dei pazienti instabili e a rischio caduta. Generalmente si trattava di un 20-25% dei pazienti. Ve ne erano di diversa forma in base alla struttura del letto, ma per un bel periodo sono state scomodissime da applicare a meno che non lo si facesse in due operatori. Si trattava di infilare le estremità in modo che si incastrassero al letto, ma l’operazione risultava difficile a causa del materasso, dei cuscini, delle coperte e delle lenzuola che si intromettevano all’operazione, costringendo l’operatore a sbilanciare il peso della spondina prima da una parte per poter liberare gli ostacoli per poi fissarle dalla parte opposta.

A parte il loro posizionamento, le spondine di fatto allontanavano l’operatore dal centro del letto e quindi dal paziente costringendolo a bypassarle da sopra e quindi esponendo il rachide ancor più lontano dal peso da sollevare. In alternativa si dovevano rimuovere allungando i tempi dell’operazione e ripetendo l’azione della loro applicazione.

Gli zoccoli alzaletto

Realizzati in legno, consentivano di declinare il letto di tre angolazioni. Finché si trattava del primo livello, lo sforzo di sollevamento era minore, ma se si doveva alzare fino al terzo livello non era un’impresa da tutti. Se si era in due a fare l’operazione la si compiva o mettendosi ai lati e con una mano si sollevava e con l’altra si posizionavano gli zoccoli, oppure uno sollevava il letto mettendosi di schiena e l’altro sistemava gli zoccoli. Entrambi lavorazioni sottoposte a sforzo fisico e rischio dorsale. I letti elettrici oggi hanno risolto il problema.

I tira letti

I tiraletti sono stati in uso fino a pochi anni fa, soppiantati con l’avvento dei letti moderni dotati di ruote di grandi dimensioni. Consistevano in due telai di ferro che si sfilavano tra loro in altezza consentendone la variazione. Dotati entrambi di uncini che aggrappavano le testate dei letti e di piccole ruote piroettanti. L’operatore doveva infilare sotto il letto dalla parte dei piedi il primo tiraletti, sollevare il letto fino a consentire ai ganci di infilarsi sulla testata. Posizionato il primo, occorreva tirare il letto scostando la testata dal muro ad una distanza tale da poter infilare il secondo tiraletti e quindi ripetere l’operazione. Per un certo periodo furono in uso i materassi ad acqua come prevenzione dei decubiti. Quindi oltre al peso del letto e del paziente si aggiungeva quello di almeno 200 litri d’acqua; acqua che esercitava una forza opposta tutte le volte che si doveva cambiare direzione. Acqua che nel rifacimento del letto sporco a paziente allettato, facilitava la caduta del paziente verso il lato nel quale lo si girava per cambiare le lenzuola, dovendo quindi sorreggere il peso morto del paziente girato dalla tua parte intanto che il secondo operatore faceva il resto.

Gli alzaspalle

Gli alzaspalle erano due telai di ferro incernierati ed inclinabili a piacere grazie ad un meccanismo indentato. Erano utilizzati per far tenere la posizione semiseduta al paziente soprattutto durante l’orario dei pasti. Il personale d’assistenza li predisponeva a tutti i pazienti allettati che si dovevano alimentare. Dovevano però essere infilati sotto il materasso; operazione questa che costringeva l’operatore con una mano a sollevare materasso e schiena del paziente mentre con l’altra infilava l’alzaspalle. Anche se lo si faceva in due, uno dei due doveva comunque effettuare questa rischiosa manovra di torsione del rachide e di spinta. Solo oggi con l’avvento dei letti elettrici si è risolto il rischio.

La storia delle camere di degenza

Negli anni ’70, ante riforma Donatt Cattin, gli ospedali erano luoghi dove si andava a morire o a nascere. Strutture ricavate spesso da conventi o da lazzaretti, con ampie camerate in cui si stipavano letti con l’unica accortezza da farci stare tra loro un comodino 40x40.

Tale aspetto non è da sottovalutare sia per la mancanza totale di intimità e privacy riservata al paziente, che dalla condizione lavorativa di chi si doveva approcciare ad assistere i pazienti, quattro dei quali avevano un lato del letto addossato alla parete e quindi tutte le manovre potevano essere svolte solo da quella parte, destra o sinistra, come capitava, obbligando il personale a movimentazioni rischiosissime per il rachide.

Cameroni da 9/12 letti o addirittura corridoi che ospitavano file di letti contrapposte in tutta la lunghezza. Un singolo bagno che doveva soddisfare i bisogni fisiologici di tutta la divisione. Questo è stato l’ambiente ospedaliero pressoché fino al ’90. Piano piano si cominciò a riservare più attenzione all’ambiente ospedaliero, iniziando con le camere riservate ai privati e quindi predisponendone all’interno i servizi igienici, una poltrona e la presa per la tv e il telefono. Persistevano le camerate comuni e i servizi igienici comuni con l’unica accortezza che i reparti di degenza erano distinti tra maschili e femminili. Tale disparità di trattamento tra pazienti privati e comuni via via andò scomparendo, in seguito alla ristrutturazione delle camerate dove vennero ricavate stanzette a due, tre o quattro letti con il bagno incorporato.

Spesso capitava e capita che la dimensione della luce della porta fosse inferiore a quella del letto o a quella degli attuali sollevatori che di conseguenza risultano inefficaci, inservibili ed inutilizzati.

La storia del trasporto dei letti

Il trasporto dei letti con il paziente coricato era ed è prassi comune ma presentava non poche difficoltà legate agli accidenti sui percorsi irregolari e sfalsati oltre che con asperità e buche dove regolarmente si andavano a conficcare le piccole ruote dei tiraletto e dove la soluzione non poteva che essere quella del sollevamento di peso per estrarre le ruote. Procedura spesso eseguita da soli a causa della scarsità di personale a disposizione.

Quando si doveva spingere un letto da soli era un dramma! Non sempre le ruote del tiraletto erano oliate e con i cuscinetti manutenuti; si imputavano in direzioni contrarie al percorso costringendo l’operatore ad uno sforzo supplementare quasi sovrumano. Poi c’era il problema delle ruote piroettanti che non facendo perno sul pavimento, costringevano l’operatore a delle torsioni sotto sforzo per costringere le ruote a prendere la direzione desiderata. Stessa operazione anche se un po’ meno contorta nel caso che uno dei due tiraletti avesse le ruote fisse; si trattava sempre di fare perno attorno alla colonna vertebrale ruotandone l’asse in direzione del percorso.

La storia degli ascensori

Gli ascensori negli ospedali hanno sempre rappresentato un pericolo per gli operatori e per il personale. A parte i guasti e le situazioni drammatiche di chi si ritrovava rinchiuso in angusti spazi a dover governare il proprio panico e nel frattempo tranquillizzare o assistere il paziente trasportato anche in gravi condizioni, con campanelli d’allarme che nessuno sentiva e poteva capitare di restare intrappolati anche per ore.

Le dimensioni dei primi ascensori erano estremamente ridotte. I letti non passavano o passavano solo a malapena dopo aver rimosso le spondine, il supporto delle sacche delle urine e le piante delle flebo. Una volta riusciti ad entrarvici, l’operatore si ritrovava schiacciato contro la parete o nel peggiore dei casi in fondo, lontano dai pulsanti di comando se fosse stato costretto ad entrare per primo nel vano a causa dello scalino tra il pavimento e il piano dell’ascensore che impediva lo scorrere delle ruote, quindi si ritrovava costretto a sollevare il letto e tirarlo all’interno senza avere lo spazio necessario per tornare verso l’uscita. Uscita che a questo punto risultava ancora più ardua se le porte non si aprivano in automatico ed occorreva esercitare una spinta, sperando che le ruote non inciampassero.

Inoltre, negli edifici vetusti, gli ascensori installati erano pochi e distanti tra loro, cosicché, anche per effettuare spostamenti brevi, si era costretti a fare lunghi tragitti per raggiungere le destinazioni.

La storia dei sotterranei

Gli spostamenti dei pazienti avvenivano per lo più attraverso i sotterranei dei nosocomi; veri e propri cunicoli che permettevano di raggiungere i vari padiglioni senza andare all’aperto e quindi evitando le intemperie al paziente. Percorrerli con i letti occupati era un’impresa difficoltosa. Tortuosi, scarsamente illuminati, con la pavimentazione dissestata, angusti e spesso in dislivello che ti costringeva a metterti a 90° per esercitare una maggior spinta in grado di far fronte alla salita ed all’opposto in fase di discesa.

Se il tempo lo consentiva si preferiva fare il percorso all’aperto ma anche questo non era privo di difficoltà sia per la pavimentazione che per i dislivelli. In seguito ci si misero anche le auto posteggiate ad impedire il transito.

I trasporti interni in ambulanza erano riservati ai padiglioni più distanti o privi di passaggi sotterranei e comunque erano limitati allo stretto necessario. I pazienti trasportati in ambulanza comunque non facevano un viaggio tranquillo ma piuttosto traballante a causa delle condizioni del manto stradale e dell’intasamento delle auto posteggiate.

La statura media delle infermiere/i

Alla professione infermieristica non sono richiesti requisiti fisici d’accesso, a differenza delle forze dell’ordine in cui vi sono, ad esempio, per gli ufficiali, sottufficiali e volontari delle forze armate, 1,65 cm per gli uomini e 1,61 per le donne e, solo per la Marina, non superiore a 1,90 cm; per gli ufficiali dei carabinieri, 1,70 per gli uomini e 1,65 per le donne; per la polizia 1,65 cm per gli uomini e 1,61 per le donne.

I nuovi parametri fisici terranno conto della composizione corporea, della forza muscolare e della massa metabolicamente attiva. C.d.M. 31 luglio 2015

Ad esempio, la percentuale di massa grassa nell’organismo dovrà essere non inferiore al 7% e non superiore al 22% per i candidati di sesso maschile e non inferiore al 12% e non superiore al 30% per quelli di sesso femminile. E la forza muscolare - misurata in kg - dovrà essere non inferiore a 40 kg per gli uomini e a 20 kg per le donne. Il terzo parametro da tenere in considerazione è la massa metabolicamente attiva, misurata in percentuale di massa magra teorica presente nell’organismo: non inferiore al 40% per i maschi ed al 28% per le femmine.

Non credo vi siano studi in merito alla corporatura media del personale infermieristico. Certo è che per l’87% è femminile, quindi già di per se inferiore, ma dalla mia personale esperienza e conoscenza ho la sensazione che alla professione infermieristica siano più portate femmine piuttosto minute. Sarebbe interessante approfondire questo aspetto.

Non si vuole qui affermare che vi sia la necessità di porre tali requisiti anche alla professione infermieristica, ma far notare però come non essendoci tali limiti, chi l’ha esercitata ha dovuto adeguarsi a prescindere dalla massa corporea e dall’altezza, tenendo presente il peso medio della popolazione italiana che spesso è inferiore a quello della popolazione assistita (obesità, alterazioni metaboliche).

La movimentazione dei carichi viventi

La normativa attuale, riguardante la sicurezza degli operatori nel caso della movimentazione dei pesi, non accenna ad una tipologia di peso animato quale è quella di un paziente. Si parla sempre di pesi inanimati e stabili e quindi delle misure atte a prevenire rischi per l’operatore: peso, dimensioni, punti di presa e movimentazione corretta. Tutte impostazioni che possono essere attribuite ad un peso statico inanimato.

Nell’ambito della scienza infermieristica, da sempre si è sviluppata l’attenzione verso le manovre e le posizioni da assumere nello spostamento dei pazienti, cercando così di evitare o limitare i rischi alla colonna vertebrale.

Resta pur sempre reale l’eventualità di incorrere durante l’assistenza in movimenti e posizioni dettate dalle condizioni e dall’emergenza (shock, lipotimie, cadute accidentali, aggressioni, obesità, para e tetraplegia, movimenti e scatti improvvisi del paziente, ecc.).

A tutto ciò va considerato ed aggiunto un elemento fisico non trascurabile quale il peso del paziente. Parametro spesso presente nella documentazione clinica e tenuto presente solo per gli aspetti clinici e mai per il rischio lavorativo degli operatori.

La normativa della 626 del ’94 imponeva in 30 kg i limiti massimi di pesi sollevabili dai lavoratori. Oggi nel nuovo allegato si fa riferimento alle norme tecniche ISO della famiglia 11228 e alla Uni EN 1005-2 da cui si desume che gli attuali limiti massimi consentiti sono:

 Maschi dai 18 ai 45 anni: 25 kg.
 Femmine dai 18 ai 45 anni:   20 kg.
 Maschi fino ai 18 e dopo i 45 anni:  20 kg.
 Femmine fino ai 18 e dopo i 45 anni:  15 kg.

 

Il peso medio della popolazione italiana è di 74 kg. per gli uomini e 59 kg. per le donne. In entrambi i casi quindi, a norma di legge servirebbero per sollevare un paziente maschio almeno 3 uomini di età tra i 18 e i 45 anni, oppure 4 donne sempre tra i 18 e i 45 anni, oppure 4 uomini di età superiore ai 45, oppure 5 donne di età superiore ai 45 anni. Queste sarebbero le norme di legge da rispettare e far rispettare.

E’ evidente che tale normativa, pur essendo relativamente recente, in ambito sanitario non è mai stata rispettata sia prima che ora. La prova consiste nelle dotazioni standard di personale addetto ai reparti di degenza dove la media di presenze di operatori è tra le due ed una unità nei turni notturni e pomeridiani. Ciò significa che per 18 ore su 24 per 365 gg. l’anno, gli infermieri e gli operatori di supporto lavorano in condizioni in cui non vengono rispettate le normative sulla sicurezza nella movimentazione dei carichi, esponendoli così a seri e ripetuti episodi di rischio di patologie del rachide.

Da tutto ciò premesso e soprattutto dall’ultima considerazione riguardante la movimentazione dei pazienti dovrebbe scaturire il rispetto dell’obbligo di legge che imponga un numero di presenze minime di operatori sui turni di lavoro, vietando assolutamente la presenza di un solo operatore.