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I parenti non accettano il codice verde al PS: infermiera insultata e umiliata perfino dall'azienda

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 19/03/2017 vai ai commenti

Contenuti InterprofessionaliLa rivistaNursing

Stante la testimonianza ricevuta, la vicenda è accaduta in un Pronto Soccorso romagnolo, e ne pubblichiamo i contenuti essenziali pur garantendo l'anonimato della persona interessata, perchè quanto è successo ci pare veramente intollerabile.

E' intollerabile che un'infermiera addetta al triage del Pronto Soccorso si veda intimare dalla polizia, intervenuta sul posto di lavoro, di fornire le proprie generalità e giustificare il proprio operato, se questo è stato corretto e professionalmente ineccepibile.

Tutto è partito dal picco febbrile di un anziano signore, paziente oncologico, che il giorno successivo avrebbe comunque dovuto presentarsi in oncologia. Su indicazione del reparto, il paziente si reca in Pronto Soccorso, con uno stuolo molto nutrito di parenti (circa una decina), per effettuare dei prelievi ematici su cui condurre degli esami in vista del ricovero programmato per il giorno successivo.

L'infermiera del triage, considerata la situazione e il fatto che il paziente quando è arrivato era già sfebbrato, ha attribuito al suo caso un codice verde, in un Pronto Soccorso che, quella sera, era piuttosto “agitato”.

Questa valutazione non è stata gradita dai parenti del paziente, che hanno iniziato a tormentare l'infermiera con continue richieste in merito ai tempi di attesa, offese, insulti, minacce, atteggiamenti provocatori, fino ad arrivare a chiamare la polizia.

Gli agenti intervenuti hanno costretto l'infermiera ad assentarsi momentaneamente dal servizio per fornire le proprie generalità e per dare conto di quanto accaduto.

Alla fine, poi ha ripreso servizio e il paziente, quando è stato visitato dal medico, è stato ricoverato in osservazione per la notte, in considerazione non della criticità del suo stato, ma del fatto che comunque l'indomani mattina avrebbe dovuto presentarsi lo stesso in ospedale.

Insomma, una serataccia per la povera collega, incorsa in una delle situazioni cui chi è abituato come lei (che ci lavora da 15 anni) al Pronto Soccorso conosce bene, ma che stavolta è andata un po' oltre i limiti della “normalità”.

Come se non bastasse, nei giorni seguenti, l'infermiera è stata convocata dai suoi dirigenti, per fornire spiegazioni dell'accaduto e, anziché essere confortata circa la pesantezza delle condizioni lavorative e i pericoli (anche fisici) cui chi fa il suo lavoro si espone ogni giorno, è stata addirittura ripresa per non aver “lasciato cadere subito la questione” e avvista di doversi sentire fortunata giacchè non ci sono state ripercussioni più pesanti.

Oltre al danno la beffa. La beffa di un'azienda distante dai suoi dipendenti, che non comprende le condizioni in cui li costringe a lavorare, che non considera come le situazioni lavorative possano pesare enormemente sulla vita privata di questi operatori, minacciati anche fisicamente per questioni senza fondamento, offesi, e perfino umiliati perchè costretti a fornire le proprie generalità in servizio alle forze dell'ordine, solo perchè qualcuno ha ritenuto la loro valutazioni, maturate con coscienza e conoscenza professionale, non adeguate (chissà perchè, ma se c'è da aspettare un po' nessuno si sente adeguatamente valutato, senza nemmeno il pudore di guardarsi intorno e vedere che, forse, c'è chi ha urgenze maggiori delle proprie).

E' accettabile tutto questo? Sicuramente no. E' inaccettabile, inappropriato sul piano umano e professionale, indicibile sul piano del messaggio che offre: pur di non far “questioni” tanto vale darla vinta a chi fa il prepotente.

Pubblichiamo di seguito la lettera che la collega ha scritto alla sua azienda, in cui si legge chiaramente il coinvolgimento emotivo e la sensazione di abbandono che ha vissuto.

Abbiamo deciso di scrivere del suo caso, pur non citandola, perchè sappia che noi sicuramente le siamo vicini e perchè tutti si possa fare un passo avanti, uno sforzo per saper mantenere la schiena dritta per riportare il valore della civiltà e della moralità anche laddove talvolta se ne perde il senso.

 

Buongiorno,

le scrivo in merito al fatto che, mio malgrado,  mi ha vista protagonista durante un turno notturno in Pronto Soccorso.

Quella sera ero di servizio nella postazione di triage e già al mio arrivo, alle 20:00, la situazione era piuttosto congestionata, con pazienti che aspettavano anche da diverse ore.

Alle 21:30 circa giunge all’accettazione un signore di 70 anni affetto da malattia oncologica che aveva in programma un ricovero il giorno dopo. Il motivo dell’accesso quella sera fu determinato da una puntata febbrile rilevata durante la giornata ed era stato consigliato di eseguire prelievi ematici di controllo.

Fin da subito da parte dei familiari si è vista una certa reticenza alla prospettiva di un’attesa di qualsiasi genere al punto da allontanarsi nell’immediatezza, paziente compreso, dal Pronto Soccorso per poi ritornare qualche minuto più tardi.

Steso su una barella e rilevati i parametri vitali, tra i quali l’assenza di febbre, gli ho assegnato un codice verde e l’ho accompagnato in una sala d’attesa isolata dagli altri pazienti.

Nel frattempo sono sopraggiunti altri parenti per un totale di circa una decina tra figli, moglie e altri di cui non conosco il grado.

Bene, a turno di due persone alla volta e per tutta la durata dell’attesa sono stata ripetutamente interrotta nell’esercizio della mia professione per richieste sui tempi, minacce anche fisiche, offese riguardo al ruolo ed offese personali. L’apice è stato raggiunto all’atto della rivalutazione, funzione che di fatto mi è stata impedita fisicamente dalla moglie.

Di ritorno al Triage squillava il telefono, era la Polizia che, allertata dai familiari, mi avvertiva che stava arrivando una pattuglia. Dopo dieci minuti si presentano due agenti che mi intimano di fornire le generalità. Ci spostiamo così dall’accettazione all’interno di un ambulatorio dove mi è stato chiesto di raccontare l’accaduto.

Sottolineo l’ulteriore interruzione di servizio… Se tutti coloro che non concordano con codice assegnato chiamassero la polizia , dovrei giustificarmi per ogni singolo paziente?

Di rientro alla mia postazione, dopo una ventina di minuti, ho trascorso il resto del tempo di attesa del paziente in PS ad essere fissata al di là del vetro dai parenti che non hanno lesinato in commenti, occhiatacce e posture di sfida nei miei confronti.

Arrivato finalmente il turno del paziente è poi stato trattenuto in osservazione in medicina d’Urgenza in attesa del trasferimento il giorno seguente, come già programmato, in oncologia.

La mattina seguente i parenti si sono presentati in Direzione Medica a lamentarsi del trattamento ricevuto. La sottoscritta è stata chiamata dalla coordinatrice e dal primario per raccontare l’accaduto e in tutto ciò mi sono sentita dire di ritenermi fortunata che non ci fossero a mio carico denunce di alcun genere e che sarebbe stato più appropriato lasciar cadere la cosa senza fare troppo scalpore.

Non mi riconosco in questa posizione perché solo un sistema ipocrita può “favorire” chi pretende attenzioni non dovute a scapito di altri pazienti nelle medesime condizioni o, addirittura, in situazioni più critiche.

Questo è quanto ho cercato di esprimere anche nella lettera, che allego, che ho spedito alla direzione medica, infermieristica, al direttore della mia unità operativa, alla mia coordinatrice e a tutti i miei colleghi.

Inutile dire che non ho ricevuto risposta alcuna…

 

Spett.le Direzione,

sono parte di questa Azienda ormai da circa 15 anni come infermiera di P.S. e ora, dopo l’ennesimo increscioso episodio intercorso con un paziente e i suoi familiari, sento il diritto ma soprattutto il dovere di rivolgermi alla vs. attenzione per tentare di farvi sentire partecipi del senso di frustrazione e vulnerabilità costantemente avvertiti nello svolgimento di questo delicato servizio.

Essere in Triage comporta assunzione di responsabilità. A questo veniamo formati soprattutto dall’esperienza oltre che dalla specifica preparazione professionale.

Dobbiamo essere sempre in grado di valutare chi si presenta in accettazione perché proprio da questa prima e fondamentale valutazione deriva l’attribuzione del codice di accesso ai sevizi di urgenza, codice che non sempre è direttamente proporzionale alla gravità dell’eventuale patologia di base.

In questo difficile contesto la decisione dell’operatore non deve e non può essere influenzata da pressioni estranee a valutazioni oggettive e professionali.

Insulti, arroganza, minacce non sono ammissibili, mai e da nessuna parte provengano ma quando ne subiamo la violenza non si possono addirittura sommare a umiliazione e rammarico come avvenuto durante uno degli ultimi turni di notte, quando sono stata costretta ad interrompere il servizio per declinare le mie generalità e per giustificare il mio operato alle forze dell’ordine che si sono presentate su richiesta dei familiari scontenti.

Potrei dare corso a fondate iniziative giudiziarie a mia tutela ma non è questa la mia intenzione perché non ho voglia di subire ancora e di più il cinismo di un sistema che confonde la tutela dei diritti dei pazienti con la piaggeria opportunistica che fa tacere tutti di fronte ad abusi e soprusi.

Questo silenzio è intollerabile. Più della mortificazione di essere “fermata” dagli agenti di polizia intervenuti. Più della fatica di dover operare in condizioni sempre “al limite”. Più della paura di camminare da sola in un parcheggio vuoto…

Di questo vorrei riuscire a rendervi partecipi.

Cordialmente.