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Aurora studia infermieristica e Claudio è a fine carriera. Insieme per una bella lezione: I libri non bastano serve la vita

Elsa Frogionidi
Elsa Frogioni
Pubblicato il: 25/07/2017 vai ai commenti

Narrative Nursin(d)g

Narrative NurSin(d)g

I libri non bastano, serve la vita e la vita arriva sempre

L’incontro è virtuale, avviene sul quotidiano la Reppublica.it. dove sono pubblicate prima la lettera di Aurora Badiali, che studia infermieristica e dopo qualche giorno anche la replica del collega infermiere Claudio Moschini, prossimo alla pensione.

Andiamo per gradi, la lettera di Aurora futura infermiera:

“Certe cose l'università non te le insegna. Lo so da due mesi. A 18 anni appena compiuti me ne sono andata di casa per vivere in una grande città, quella dove tento di studiare infermieristica. Dico tento perché fare l'infermiera non è una passeggiata: stare a contatto con chi soffre, con chi magari il giorno dopo non ci sarà più, essere sempre concentrata perché non stai maneggiando un oggetto, ma una persona. Stare a contatto con chi soffre. A lezione provano a spiegarti come si fa. Empatica sì, coinvolta mai".

"Corri quando un paziente spazientito suona il campanello per dirti che la flebo è finita e deve essere cambiata. Magari ti chiama proprio quando stai facendo il cosiddetto giro letti e non sai più da che parte prendere: devi cambiare e lavare venti persone, cambiare almeno dieci flebo, fare sei iniezioni. E devi farlo bene. Quindi vai, veloce e lenta allo stesso tempo, perché la vita delle persone è preziosa e in quel momento ne sei custode. E richiamano, richiamano nonostante tu abbia risposto quasi imbarazzata: 'Abbia pazienza due minuti, stiamo passando per tutte le camere e purtroppo lei non è l'unico che ha bisogno'… e i parenti ti squadrano anche male e a te dà fastidio; non sanno quanto tu stia correndo da una parte all'altra. Arriva il tanto atteso momento in cui riesci a "padroneggiare" quello che provi di fronte alla sofferenza altrui. Solito mantra: empatica sì, coinvolta no".

"Poi improvvisamente, in una bellissima giornata di maggio la situazione si ribalta. Squilla il cellulare, è mamma. Che bello posso dirle che ho preso 30 e lode all'esame! Ma non va così: "Devo dirti una cosa: tuo fratello ha avuto un incidente, la situazione è abbastanza delicata. Vieni a casa.". Il mio tutto si è frantumato in quell'istante. Sono corsa in lacrime nella mia nuova casa, ho preparato lo zaino e sono tornata dalla mia famiglia".

"Empatica sì, coinvolta no.  Ero io che cercavo di fare la roccia, dopo tutto mi ero abituata (o credevo di esserlo) alla sofferenza altrui. Sì, ma non a quella del mio stesso sangue. Ho preso in mano quello che l'università ti insegna. Ho fatto le notti con lui, anche quelle peggiori. Da un momento all'altro mi sono ritrovata senza divisa, mi sono ritrovata a suonare infinite volte il campanello per dire che la flebo era finita o che lui aveva bisogno di essere lavato. Le risposte erano le stesse che davo io ai parenti, e la mia reazione era la stessa dei parenti che guardavano male me".

"Eppure ho capito l'ansia delle persone che vedevo ogni giorno in reparto e la testardaggine di chi voleva far notte insieme ai loro cari nonostante non si potesse. Ho capito che non è vero che ti abitui a stare vicino a qualcuno che soffre, almeno non per me. Ancora di più ho fissato nelle mie ossa che non si impara in un'università a capire e sostenere la persona di cui ti prendi cura. Lo comprendi solo e soltanto quando sei dall'altra parte, quando vivi la sofferenza di qualcuno che ami. Solo allora capisci le smorfie dei parenti, le lamentele dei pazienti e l'arrendevolezza di alcuni di loro".

"Ti rendi conto di come vorrebbero essere trattati, di come vorrebbero che qualcuno rispondesse alle loro incertezze e preoccupazioni. I libri non bastano, serve la vita”.

Ora la lettera di risposta del veterano “infermiere vicinissimo al pensionamento Claudio Moschini che scrive da Arco, Trento:

“Che bella lettera quella di Aurora, diplomanda in Infermieristica. Mi ha riportato indietro negli anni, quando vivevo le sue stesse emozioni nei reparti in cui ho prestato la mia opera. Tra poco, solo quattro mesi e mezzo, andrò in pensione dopo oltre 42 anni di onorata carriera. Carriera in verità no, non si fa carriera nell'infermieristica, semmai si continua a studiare per accedere a posizioni superiori. Io ho deciso di no, di non accedere alle posizioni superiori, caposala coordinatore, dirigente infermieristico. No, non faceva per me. Per me facevano i pazienti, le persone ammalate".

"Quello era, ed è sempre stato, il mio posto, al loro fianco, vicino ai parenti, a dare conforto, consigli, vivere le emozioni di un distacco ma anche quelle di una guarigione, accompagnarli. Lenire le sofferenze non solo fisiche, consolarli quando stavano male, sostenerli nella guarigione. Sono stato mani e piedi, sono stato testa, parola e traduttore delle parole mediche, sono stato madre e padre, fratello e sorella, talvolta anche ministro del culto, qualunque esso fosse".

"Ma come dice Aurora: empatia tanta, coinvolgimento meno. Certo, non farsi coinvolgere talvolta è difficile, ma nel tempo s'impara e si raggiunge il giusto equilibrio. Ho dato molto, oltre quello che mi veniva richiesto, ma è successo senza deciderlo, come si poteva fare altrimenti? Erano, sono persone, mica macchine. Ho dato mille, ho portato via milioni: quanto ho imparato, della vita, della società, dell'umanità, dei misteri. Ricevo tantissimo dalla mia professione e quello che ricevo, che è un dono, non me lo tengo, è troppo prezioso per tenerlo per me".

"Aurora ha capito certi aspetti solo dopo averli vissuti in prima persona. A me non è successo, per fortuna, ma io li ho capiti con l’esperienza ascoltando, guardando, sentendo. Mai ho risposto a un campanello facendo pesare il mio lavoro, anche nel caos, anche in mancanza di colleghi, anche nella necessità di altri più bisognosi. Tutti sono bisognosi quando sono nel letto di un ospedale e devi portare un pappagallo, sostituire una flebo, dare un antidolorifico, sistemare un cuscino perché stiano più comodi, dare un bicchiere d'acqua, dire una parola".

"Ho studiato nei tempi in cui ci chiamavano Infermieri Diplomati, poi Professionali; l'università era ancora lontana. I miei maestri sono stati gli stessi colleghi con cui avrei lavorato. Ora manca poco, lascerò la professione. La cosa che più mi meraviglia e mi entusiasma è che conservo la stessa passione del primo giorno in cui sono entrato in corsia. Sono svenuto ben tre volte, ogni volta ero più convinto che quella sarebbe stata la mia vita. Mi rende orgoglioso quando incontro una persona curata tanti anni prima che ancora si ricorda di me e ringrazia. Mi considero fortunato, non a tutti succede. Auguro ad Aurora e a tutti i giovani che intendono avvicinarsi a questa professione di essere fortunati come me. La fortuna talvolta ha bisogno di una mano. Dategliela”.