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Un infermiere racconta la storia di tutti noi: Essere Infermiere Oggi

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 14/09/2017 vai ai commenti

AttualitàNursing

Riceviamo e pubblichiamo la minuziosa e lucida analisi di un infermiere poco più che trentenne, sui conflitti generazionali che attraversano la categoria infermieristica.

 

"Quindi se alla domanda: “cosa vuol dire essere infermieri oggi?” non hai trovato le risposte che cercavi, o hai trovato risposte che non sono congruenti ai sogni che ti eri fatto, incomincia da oggi a lottare per poter essere un infermiere e a chiederti:  “varrà la pena essere infermieri domani?” . Sono sicuro che in questo caso, la risposta dipenda solamente da te, e dalle cause che scegli di seguire, e dalla compattezza che tutti gli infermieri dimostreranno nel difendere i propri diritti, ma soprattutto quelli della professione"

 

 

Cosa vuol dire Essere “infermieri oggi”?

A parte l’evocazione dell’orrenda rivista di “regime” che ci viene propinata  mensilmente dal nostro collegio, è una domanda che ancora ci poniamo?  O forse è un quesito  al quale non ci  sottoponiamo più  perché fondamentalmente sappiamo che non avremmo nessuna risposta? E magari alla  ricerca di questa risposta, di questa appartenenza rispetto la nostra professione, creiamo inconsciamente delle divisioni interne, chiedendo a noi stessi: “Oggi quali infermieri sono nella mia stessa posizione?”

Di conseguenza ad una domanda, apparentemente banale,  se ne risponde con un’altra, che oltretutto crea divisioni, invece che accomunare. Ma perché? La risposta potrebbe essere: “ i tempi sono cambiati”(ed ovviamente potrebbe sembrare un luogo comune) ed anche in fretta.

Perché ci sono infermieri diplomati, ci sono infermieri laureati, perché ci sono infermieri tali perché è una “professione sicura”, perché ci sono infermieri specializzati in alcune aeree, ma vengono collocati dove decide l’azienda, perché ci sono caposala che hanno dato la propria vita per il reparto, e coordinatori che in reparto non hanno mai lavorato, infermieri assenteisti, infermieri con partita iva che guadagnano al netto meno di una collaboratrice domestica, ed infermieri dirigenti, magari ex sindacalisti; infermieri che cambiano ogni giorno reparto di un ospedale assegnati dalla cooperativa di turno, infermieri raccomandati, infermieri poco raccomandabili, eruditi con poca tecnica,  o dei tecnici disinformati, finiti lì per caso o eroi, che come tali preferiscono rimanere spesso anonimi.

L’unica cosa che al giorno d’oggi sembra accomunare i giovani e meno giovani infermieri (visto l’immobilità negli ultimi anni specialmente al centro-sud di assunzioni) è la visione/miraggio del posto pubblico, a tempo indeterminato, l’oasi dell’infermiere, la meta ultima da conquistare a tutti i costi, dove di fatto sembrerebbe ai più che l’unico avversario del collaboratore professionale sanitario sia il collega stesso, contro cui combattere a suon di concorsi, ricorsi, spintarelle (non date ovviamente, ma ricevute da terzi), “facebookiani” rancori, offese, immaturi litigi, discussioni infantili.

Allora, cosa vuol dire essere infermiere oggi?

Ora se non si hanno risposte e volendo riorganizzare le idee, bisogna ripartire dalla domanda “ad oggi da quanto tempo sono infermiere?”

 Questa domanda che dovremmo porci è d’obbligo, poiché non si conoscono più le situazioni lavorative della nostra professione, o si fa finta di non vederle.

L’Infermiere era un lavoretto d’oro, sicuro e pubblico, senza autonomia professionale, poche responsabilità,  nei primi anni della riforma ospedaliera gli infermieri ancora non si potevano definire professionisti della salute, spesso era un secondo lavoro per chi aveva già un’attività in proprio, o per chi un’arte proprio non l’aveva. Non esisteva una carriera, era un’appendice del medico all’interno dell’ospedale, dove di braccia ce n’è sempre bisogno, prima come ora.

Nel tempo la professione cresce, si autodetermina, ma nello scontro contro il vero Imperatore del S.S.N cioè il medico non riesce mai ad emergere;  fin quando succede qualcosa di fisiologico: gli infermieri incominciano a scarseggiare  su tutto il territorio nazionale, perché con l’avanzare della tecnica medica servono delle basi di studio più solide per svolgere quella che da arte, nel frattempo, è diventata professione a tutti gli effetti, perché la paga è bassa rispetto le responsabilità, perché effettivamente non c’è riconoscimento ma soprattutto perché sono essenziali dei requisiti che non si possono imparare sui libri.

Con lo scarseggiare dell’offerta infermieristica, quindi del numero di infermieri, questa professione all’improvviso riesce a far sentire la propria voce rispetto ai medici, rispetto la paga, rispetto il luogo di lavoro; così se parlate con alcuni infermieri più anziani/esperti sicuramente vi racconteranno che a fine anni ottanta- inizio anni novanta, l’infermiere poteva scegliere dove lavorare e come lavorare, spesso anche a che ora, perché la domanda era veramente alta e tra pubblico e privato il lavoro non mancava di sicuro.

Come si può capire, questo potere contrattuale da parte dei pochi infermieri, ai signori medici o dovrei definirli dirigenti medici, non è andato tanto a genio. Di conseguenza per allargare un bacino più ampio di mano d’opera infermieristica, ed essere più appetibile alle nuove leve, il nursing anche in Italia diventa una laurea triennale, portando giovani provenienti da tutte le realtà di studi superiori, a riversarsi nelle scienze mediche “minori”; tutto ciò ingigantito dall’eco del posto di lavoro sicuro, che effettivamente fino a  quegli anni c’era.

In quegli anni  di sviluppo e crescita della professione, con lo stato Italiano più che in crisi, imbrigliato dalle richieste di austerità-serietà dell’Unione Europea rispetto ai sprechi  reali (tutti soldi finiti ad impinguare le tasche già grassocce di medici e manager) incominciano i tagli, vere e proprie sforbiciate, di personale, di strutture e mentre l’ingresso alla facoltà di Medicina nelle Università viene ristretto sempre di più, si continuano a sfornare nuovi infermieri, in numero sempre maggiore, bloccando man mano ogni tipo di sostituzione e di assunzione. Così da creare una vera e propria crisi occupazionale della professione, e portando una concorrenza al ribasso dei diritti e del salario.

Negli ultimi vent’anni, volendo tornare a rispondere alla domanda di base “ cosa vuol dire essere infermiere oggi?”, sono state sfornate generazioni di infermieri che si sono dovute scontrare con differenti opportunità di lavoro:

-Infermieri che da almeno quindici anni lavorano con contratto a tempo determinato continuo presso la stessa azienda, dove ogni a Natale non conoscendo il loro futuro, non riescono a mandare giù il panettone nell’attesa di sapere se dopo dieci anni rinnoveranno un altro anno oppure no.

-Infermieri che hanno trovato lavoro nel privato, spesso case di cure, dove per un contratto a tempo indeterminato a volte lavano anche i pavimenti, e chissà magari poi si riesce ad arrotondare con un’assistenza in nero in più.

-Infermieri che lavorano a rimborso spese da anni, che vengono pagati a giornata, spesso per alcune società poco misericordiose nei confronti di una professione che non può e non deve accettare situazioni simili.

-Infermieri presi con avviso pubblico per sostituire carenze particolari (quelli si riconoscono perché sul cartellino hanno scritto il nome a matita.)

-Infermieri con partita I.V.A. liberi professionisti, bello no?  a parte il fatto che lavorano da anni nello stesso sposto e sono costretti a  pagare a loro spese: previdenza, tasse e commercialista, ed ovviamente hanno in cambio ferie e malattia non pagate. Spesso i più giovani di questi, dopo sei mesi dall’inizio della fatturazione   vengono scaricati da un giorno all’altro dalle varie cliniche onde evitare eventuali denunce.

-Infermieri che tramite cooperativa lavorano in Ospedali Pubblici, spesso con la coscienza pesante, ma la busta paga troppo leggera, alla mercé dei stabilizzati.

-Infermieri neolaureati che dopo  anni di disoccupazione, stufi di cercare lavoro, decidono di andare all’estero per poter fare la prima esperienza.

-Infine infermieri che pur di entrare nel pubblico hanno rinunciato agli affetti, alla famiglia, alle proprie abitudini, alla propria città, per andare a lavorare in regioni virtuose, quasi sempre del nord, dopo aver comunque sia superato un concorso pubblico ed essere così già impiegati presso il Servizio Sanitario Nazionale, con la promessa di una mobilità che gli garantirà in caso di nuove assunzioni nella propria regione di origine, un accesso prioritario.

Elencati questi casi, oltre all’ambizione del posto pubblico a tempo indeterminato come detto prima, un’altra cosa  sembrerebbe accumunare i  professionisti nel campo sanitario: nonostante condizioni di lavoro peggiorate in pochissimo tempo, è sempre regnata  una rassegnazione, quasi abnegazione, nell’accettare la lenta perdita di diritti, di condizioni di lavoro inadeguate e di conseguenza ad accettare una naturale predisposizione ad alimentare la guerra al ribasso l’uno contro l’altro.

 

 

Ad oggi c’è chi incomincia a dire basta, c’è una categoria tra quelle sopra elencate che vuole chiarezza: chi ha accettato incarichi dal S.S.N. dopo vittoria concorsuale, vuole che nelle Regioni dove sembrerebbe si ricominci ad assumere (onde evitare il fallimento totale), come la legge prevedeva, si prendano in considerazioni in primis gli stessi lavoratori che già sono all’interno della grande azienda Italiana del Sistema Sanitario Nazionale. Ad oggi prende vita una categoria che incomincia a pretendere il rispetto delle promesse fatte, ma soprattutto il rispetto delle leggi in vigore. E questi sono quel qualcuno che  ha accettato di lasciare moglie e figli per trasferirsi in altra regione con lo scopo di poter avere la priorità nel  rientrare  attraverso la mobilità, come prestabilito.

Forse proprio perché quest’ultima tra le categorie di infermieri sopra elencate è quella che vive più sulla propria pelle la scelta fatta, scelta che va ben oltre il contesto lavorativo, oggi è stufa di accettare angherie da parte delle Aziende, e pretende solamente il rispetto delle regole. Non si può venire meno a questi patti prestabiliti solo perché, assumendo da concorso senza fare prima una mobilità, si ingrasserebbero i numeri a sostegno del Governo e della relativa riforma del lavoro. 

E questo per tutti gli infermieri  è solamente che un buon punto di inizio per rialzare la testa, e tutte le altre “categorie” di infermieri che vengono utilizzate al limite della legge o sforando i canoni di decenza e deontologia da parte delle aziende in cui lavorano dovrebbero prendere coscienza di quanto sta succedendo. “L’onda” che potrebbe travolgerli è misurabile semplicemente pensando che i posti al concorso per l’Umberto Primo erano quaranta, mentre gli infermieri speranzosi erano venticinquemila, pensate se invece di battersi per un posto fossimo stati pronti a battersi per un’idea, idea di rispetto e dignità.

Tutto ciò per dire cosa? Che non bisogna vedere la causa/ricorso del M.E.L.S.  un’azione contro gli altri infermieri che onestamente sono riusciti ad entrare nella tanto agognata graduatoria concorsuale. Anzi la si dovrebbe  tutti appoggiare, proprio perché è lo scontro tra i nostri diritti di Infermieri contro i poteri forti che decidono sul nostro destino, ma soprattutto perché un giorno, per quell’azienda, che ad oggi se ne frega di una legge, ci potresti lavorare  te, e anche in quel caso potrebbe avere la stessa mancanza di scrupoli.   

Quindi se alla domanda: “cosa vuol dire essere infermieri oggi?” non hai trovato le risposte che cercavi, o hai trovato risposte che non sono congruenti ai sogni che ti eri fatto, incomincia da oggi a lottare per poter essere un infermiere e a chiederti:  “varrà la pena essere infermieri domani?” . Sono sicuro che in questo caso, la risposta dipenda solamente da te, e dalle cause che scegli di seguire, e dalla compattezza che tutti gli infermieri dimostreranno nel difendere i propri diritti, ma soprattutto quelli della professione.

 

 

Ph credit: linkiesta