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Un infermiere, l'infarto, la depressione e la rinascita. La sua storia in un libro: Domani ci sarà tempo

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 20/12/2017 vai ai commenti

Le interviste

 

 Ho incontrato Andrea per caso, tra le pagine del web. Ho trovato interessante la dualità di Andrea, infermiere e scrittore, una dualità che sento vicina alla mia, se non fosse per il fatto che il suo libro, intenso ed appassionante, racconta di quando improvvisamente, si è trovato, non più ai piedi di un letto d'ospedale, ma su quel letto di terapia intensiva.

Andrea racconta l'infarto, la depressione e la rinascita.

La forza di tornare alla vita che ha trovato nel nostro meraviglioso quanto complicato lavoro, nei colleghi e nella scrittura.

L'ho letto tutto d'un fiato; Andrea ha saputo creare quel crescendo tipico di un ottimo libro, la giusta tensione.
Una narrazione semplice e vera, da sentirsela addosso
Un finale che ti aspetti solo quando sei alla fine.

L'ho intevistato per voi.

Marialuisa Asta

 

 

  • Innanzitutto, Andrea, mi piacerebbe che brevemente si presentasse ai nostri lettori

 

Ciao, sono Andrea e sono cardiopatico.

Rispondete tutti: “Ciao Andrea” e iniziamo questa riunione dei cardiopatici anonimi.

A parte gli scherzi, sono diventato infermiere con il vecchio ordinamento, lavoro dal 1991 in ospedale e dal 2001 sono in rianimazione (e non mi hanno ancora dimesso…)

Originario della Toscana, vivo in Romagna e amo leggere, anche se non ho molto tempo, e scrivere. Ho al mio attivo 4 raccolte di poesie e questo libro, “Domani ci sarà tempo”, in cui ho tentato la strada della narrativa, tutti pubblicati con la casa editrice EEE di Piera Rossotti.

Amo la tecnologia, sono molto attivo sui social network e sono curioso di natura. Vivo con la mia compagna Irma, anche lei scrittrice, e sua figlia Alessia, oltre al cane e alla gatta che si amano e convivono in armonia.

 

 

  • Ho avuto modo di leggere il suo libro Andrea, tutto d’un fiato, e la sua storia mi ha dato modo di riflettere e di pormi come lei,  dall’altra parte di quella che a volte, per svariati motivi, diventa una barricata, tra noi e i pazienti, ed altre un sottilissimo velo. Cosa si prova a stare da quella parte, a doversi affidare per una volta, e conoscere perfettamente tutto quello che comporta avere avuto un infarto?

 

Diciamo che quel lato è scomodissimo. Fa paura e non solo perché sai bene, essendo infermiere, cosa hai. Quindi, l’unica cosa che puoi fare, o che almeno io, nelle mie condizioni, ho potuto fare, è stato affidarsi completamente e incondizionatamente alla competenza e alla professionalità dei colleghi, quelli che di solito incontri al bar a fine turno o al distributore delle divise prima di entrare in servizio. Devi, non solo affidarti ai colleghi, devi “lasciarti curare”. Io, dato il mio stato clinico di quel momento, potevo solo sentire quali prescrizioni e indagini venivano disposte e assentire mentalmente. Facevo il tifo per il team che mi stava salvando la vita. Beh, posso dire che, quella volta, “abbiamo vinto”.

 

 

  • Mentre mi perdevo tra le pagine del suo libro, ad un certo punto, mi corregga se sbaglio, ho percepito come se l’infarto le avesse fatto capire che il nostro tempo nel mondo è breve e non dobbiamo sprecarlo, e che nell’insicurezza del domani, dobbiamo vivere appieno ogni giorno. Poi però, a sorpresa (per me), l’insicurezza del domani lo ha fatto sprofondare nella depressione. Come mai? È tipico degli infartuati?

 

Sembra che sia “normale” almeno nel 50% dei casi di infartuati giovani, a quello che mi ha detto il mio cardiologo. Dato che un “giovane” ha un’aspettativa di vita maggiore, l’ansia su come questo periodo di vita rimasto trascorrerà è direttamente proporzionale; inoltre c’è anche il timore per quella che potrà essere la qualità di vita: se si potrà continuare a esercitare il proprio lavoro o se non sarà possibile. Quali altre attività quotidiane sarà possibile svolgere autonomamente e quali invece no. Per di più si vive in un corpo che già una volta ti ha “tradito” e del quale non sai più bene quanto poterti fidare. Tutte cose che mettono paura e tolgono serenità. Questo sommarsi di disagi porta a un’ansia che spesso sfocia in depressione. Tutte paure che, se da una parte rendono più oscuro il futuro, dall’altro ti spingono maggiormente a vivere l’adesso in modo più intenso e significativo. A cercare di dare un senso alla vita e a lasciare un segno del proprio passaggio che sia tangibile e duraturo.

 

 

  • Quanto il nostro lavoro e la scrittura lo hanno aiutato a venire fuori dal tunnel della depressione, ed in che misura?

 

Devo essere onesto, più che il lavoro in se, mi hanno aiutato alcuni colleghi di lavoro, quelli più stretti, quelli con cui “condividi la trincea” (e le tragedie, le difficoltà, i dolori e le gioie) tutti i giorni, tutti i turni. Molti sono non solo colleghi, sono amici e quasi fratelli. Sono persone a cui affideresti, senza dubbi e ciecamente, la vita in caso di bisogno (come mi è effettivamente successo).

La scrittura è stata un’altra formula che mi ha aiutato ad uscirne, ma anche questo è stato un percorso di crescita per il raggiungimento di un certo grado di consapevolezza. Attraverso la scrittura ho espresso, anche ma non solo, a me stesso i miei dubbi e le mie ansie. Le ho esternate, le ho messe “fuori da me” e le ho viste sotto angoli e prospettive diverse, sono riuscito ad affrontarle allontanandomene, almeno metaforicamente, e a guardarle da un punto in cui mi facessero meno male.

Scrivere mi ha aiutato in un modo diverso dal lavorare. Lavorare mi ha aiutato a farmi sentire “normale” e non malato.

Ma per uscire dalla depressione bisogna affrontare un cammino lungo e doloroso attraverso sé stessi. Ed è necessario farsi aiutare rendendosi conto che il problema c’è. Se poi si ha la fortuna di avere vicino persone che ti sostengono e non “minimizzano” il problema come una tristezza momentanea, ma ti aiutano ad affrontare una patologia seria, grave e invalidante e con conseguenze anche mortali, allora è un inferno da cui si può uscire.

Ma bisogna, a parer mio, sensibilizzare di più le persone su quanto possa essere terribile oltre che subdolo questo male.

 

 

  • Lei ha stravolto completamente la sua vita. Quella mattina lo ha cambiato per sempre. Oggi da infermiere, cosa porta quotidianamente di quella esperienza da “malato”, nel lavoro che compie quotidianamente?

 

Noi che lavoriamo in ospedale, se da una parte siamo “corazzati” al dolore e alla tragedia, dall’altra non siamo abituati al fatto che questa possa toccare noi direttamente.

Scordatevelo di essere immuni e intoccabili! Siete umani né più né meno delle persone che curate ogni giorno. Se si sono ammalati loro potrebbe benissimo capitare anche a voi. Non lo auguro a nessuno ma pensate a che tipo di persona vorreste di fronte nel caso foste voi stesi in barella. Poi, cercate di essere quel tipo di persona al meglio delle vostre capacità e possibilità.