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La nobiltà del volontariato, ma la professione è anche altro…

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 11/11/2014 vai ai commenti

Nursing

prefazione di Chiara D'Angelo

 

Alcuni giorni fa abbiamo pubblicato un articolo dal titolo: “Ambulatori Cri: l’infermiere volontario è Oss” (Clicca qui per leggerlo) che ha suscitato un acceso dibattito tra appartenenti al variegato universo dell’assistenza sanitaria: volontari, volontari del soccorso, Oss, Infermieri, ecc.

Gli interventi hanno manifestato linee di pensiero diverse anche tra appartenenti alla stessa categoria a testimonianza, forse, che il quesito posto nell’articolo (è lecito riassumere due figure, infermiere e infermiere volontario, dai risvolti assistenziali, legislativi e sociali diversi, nella stessa denominazione?) ha una risposta tutt’altro che chiara e scontata.

Pubblichiamo di seguito le considerazioni di Infermiere Arrabbiato sul tema.

 

 

Torno volentieri a parlare dell’argomento “Infermieri volontari” VS “Infermieri”: ribadisco subito che i primi costituiscono delle figure non in possesso di alcun titolo di laurea ed equiparate, nelle attività lavorative, all’operatore socio sanitario specializzato (si può inoltre parlare di lavoro se non sussiste una retribuzione?), mentre i secondi dovrebbero (mi è d’obbligo il condizionale purtroppo) essere professionisti abilitati a prestazioni sanitarie in virtù del corso di studi universitario effettuato e della tutela legislativa palesata dalla normativa vigente.

L’aver chiarito nell’articolo precedente questa differenza fondamentale ha scaturito l’insorgere agguerrito di alcuni dissidenti verso la categoria degli Infermieri, che hanno propugnato (alcuni con estrema veemenza linguistica mista a volgarità gratuita) lo snobismo con cui noi, personale in possesso del titolo qualificante per poter operare come Infermieri, guarderemo ai volontari armati di buon senso e che in definitiva dovremo anche imparare da loro. La congiunzione anche è usata come peggiorativo in questo caso, come a dire “dopo tutto quanto non solo dovete restare in silenzio ma anche imparare”. Cosa dovremo imparare quindi? Come si fa l’assistenza infermieristica? Come si esegue con criteri di Nursing una terapia intramuscolo? O come si monitorizza la glicemia capillare? E ammesso ma non concesso, da chi dovremo impararlo?

La domanda posta nell’articolo inoltre non andava a sollevare nessun interrogativo sulla meritocrazia storica che hanno avuto i gloriosi volontari, ne sull’importanza sociale che esso riflette oggi. No. La domanda era molto più chiara, precisa, netta: è lecito riassumere due figure dai risvolti assistenziali, legislativi e sociali diversi, nella stessa denominazione? E se si, perché? E se si, perché dovrebbe valere solo per gli Infermieri e non per tutte quelle professioni che in virtù della memoria storica, hanno una genesi diversa da ciò che sono diventati in seguito?

Le risposte arrivate invece, quanto meno quelle di cui il sottoscritto è a conoscenza grazie ai Social Network ed alla Web-diffusione, hanno ruotato intorno all’argomento senza entrare nel vivo della questione. Questo tra l’altro spiega anche quanto sia patologico il concetto di comunicazione quando la si usa senza conoscerne gli assiomi, poiché, seppur chiarito nell’introduzione da Chiara d’Angelo, la nostra posizione esulava da giudizi sullo spirito del volontariato ed era scevra da ogni criticità nei confronti di chi sceglie questa realtà nobilissima, la questione è stata spostata proprio su ciò, tralasciando il quesito.

Quindi non si può dirimere il dubbio espresso nell’articolo dissertando su nascita, miracoli, declino, morte e postumi del volontariato. E non mi appaiono esaustive ne risolutive le risposte date da alcuni Infermieri laureati che sono contemporaneamente Infermieri volontari, un doppio ruolo che suona parecchio i rintocchi dell’incompatibilità, dove si asserisce che per eseguire certi interventi infermieristici (nota: definiti mansioni da loro) non serve la scienza infusa. Un ritorno ai regi decreti? La professionalità di un servizio sanitario non si qualifica tale per la precisione empirica (o almeno non solo) con cui si esegue un intramuscolo perfetta: noi vogliamo ribadire che la natura dell’ Infermiere non può essere studiata tramite un’ analisi eseguita su compartimenti stagni (il prelievo capillare fatto bene, la sottocutanea eseguita bene) ma è un processo assistenziale basato su precetti teorici e scientifici di cui il tecnicismo fa sicuramente parte ma non ne costituisce il tutto. Ed il background fornito al professionista è la sommatoria di formazione universitaria, formazione continua, ricerca ed esperienza clinica. Questo si chiama Nursing ed è patrimonio esclusivo degli Infermieri, e questo è il riconoscimento per cui combattiamo con immensa fatica ogni giorno.

Ritengo che sia pericoloso per noi e per l’utenza che vengano accostati alla parola Infermiere diciture come “volontario”, perché la natura del servizio infermieristico esplicata benissimo dal profilo 739/94 è quella di cui sopra, mentre altre forme di assistenza che vengono prestate al cittadino non godono di un background teorico tale. Quindi il problema della liceità a prestare il nome di “Infermiere” per designare altre figure, socialmente valide e dalle origini nobili, se condotto in quest’ottica mi porta a esprimere il disaccordo totale.

Riconoscendomi in quanto detto prima, come figura professionale, fatico a cedere al semplicismo con cui si giustifica la presenza di una figura paragonata alla mia sulla base della semplicità dell’atto pratico che compie: fare una glicemia non è attuare il processo di Nursing per cui viene condotto un prelievo capillare. Un volontario che gestisce uno stand in cui vengono eseguiti screening alla popolazione non può definirsi Infermiere volontario solo perché pratica un foro sul dito con la stessa capacità tecnica con cui lo fa un Infermiere in corsia. Quest’ultimo possiede infatti la preparazione ed abilitazione per cui quella prestazione diventa parte di un progetto assistenziale di più ampio respiro.

Per queste differenze che risiedono nel patrimonio genetico dell’Infermiere mi sembra inopportuno mettere sullo stesso piano le due figure e ciò che fanno. Fermo restando che sicuramente il volontariato ha nobili origine; che il suo scopo sociale è volto al miglioramento dell’individuo e il suo motore risieda in uno spirito altruisticamente disinteressato verso il prossimo, non posso che rifiutare la denominazione di “Infermiere volontario” e sperare che questo acceso dibattito possa non essere più condotto poggiando i pilastri sul tecnicismo dell’atto pratico ma si affronti considerando veramente la natura complessa di un Infermiere. Inoltre sarebbe auspicabile che la questione venisse affrontata non solo da noi ma anche e soprattutto dalle dirigenze.