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Psicopatia in ospedale: il problema visto da un'infermiera...

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 10/12/2016 vai ai commenti

La rivistaNursing

Riceviamo e pubblichiamo un contributo della collega Maria Luciana Favorito (Coordinatrice infermieristica e Counselor formatore) che, sulla scorta dei recenti eventi di cronaca riportati in merito alle vicende di Saronno (Clicca), stende un'analisi dell'insinuarsi della psicopatia nelle organizzazioni sanitarie.
Grimaldello per la patologia nel sistema sanitario la distorta concezione dell'essere professionisti all'interno dell'organizzazione, laddove alla prevalenza della cultura ontologica e di cura si sostituisce una impostazione alienata dal rapporto con il paziente e fortemente orientata (e profondamente contaminata) di tipo manageriale che riconosce nel raggiungimento dei risultati economici un valore preminente rispetto all'esercizio ontologico.
Una lettura interessante, per la quale ringraziamo Maria Luciana, che invita e induce a riflessioni non banali.
 

 

PSICOPATICI IN OSPEDALE

di Maria Luciana Favorito

 

Questi, sicuramente, sono tempi duri per il nostro sistema sanitario, dove, in questi ultimi tempi, sono emersi con significativa frequenza episodi di cronaca nera. Ultimo fatto, i due serial-killer dell’ospedale di Saronno accusati di numerosi omicidi, rigorosamente medico e infermiera, come nelle migliori e avvincenti storie di letteratura rosa-orror.

Sono necessarie delle riflessioni critiche sul sistema che ha prodotto e produce questo genere di follie. Perché, beninteso, di questo si tratta, di follia. Una follia che si presenta con tratti emotivi/interpersonali e comportamentali apparentemente comuni alla personalità dello psicopatico, che il DSM-V, il manuale internazionale delle malattie psichiatriche, definisce come disturbo antisociale di personalità.

La psicopatia descrive individui, i quali, dietro un’apparente maschera di sanità, nascondono deficit neurobiologici e psicologici che li rendono propensi a mettere in atto azioni violente.

Essi esprimono vissuti totalmente anaffettivi, incapacità di sperimentare empatia e di provare sentimenti di umanità, incapacità di provare rimorso, di riconoscere le emozioni altrui, e comportamenti narcisisti caratterizzati da sentimenti di onnipotenza crudeltà e cinismo.

Così accademicamente descritti, questi costrutti psicologici producono in noi sentimenti di orrore e di paura. Ovvero, il ripudio e la paura nei confronti di comportamenti che mettono a rischio la sopravvivenza psichicofisica hanno, nella specie, una funzione evolutiva. Eppure, nel contesto professionale dove si muovono i protagonisti di questi fatti raccapriccianti, non sembrerebbe avere funzionato il richiamo di appartenenza alla specie, ovvero, non ha funzionato quel codice etico/evolutivo legato alla sopravvivenza, che spinge gli individui appartenenti ad una stessa specie,a tutelare i propri simili. Tanto più, che i soggetti bersaglio di questa onnipotenza psicopatica, erano individui estremamente fragili e indifesi.

Proprio questo vuoto di coscienza umana nelle persone che avevano consapevolezza di ciò che accadeva, professionisti che hanno visto sentito e taciuto, è ciò che più sgomenta, che riempie di rabbia, e che si sperimenta come assolutamente intollerabile. E' il fenomeno di omertà e collusione che, di fatto, ha consentito per lungo tempo che tanti omicidi potessero accadere sotto gli occhi di professionisti, dirigenti in primo luogo. Su questo, si deve riflettere e ragionare. Senza omettere alcuna valutazione etica, ontologica, e deontologica, sulle responsabilità dirette e indirette della dirigenza sanitaria e di tutti i professionisti coinvolti. Non denunciare un'atrocità commessa, per di più se accade sotto i nostri occhi, equivale a diventarne l'autore morale.

I contesti professionali, tutti, poggiano su un’idea, un modello sociale e culturale, che ispira e orienta comportamenti e valori delle persone che li animano e li rappresentano. Rispetto a quanto accaduto, il vero dramma è rilevare il fatto che l'attuale modello organizzativo sanitario, oramai diventa sempre più spesso teatro di comportamenti pericolosi e spesso criminosi.

Recentemente, la letteratura clinica psichiatrica e forense, ha riportato studi ed evidenze scientifiche che segnalano l’insorgenza di un nuovo quadro di psicopatia legata ad individui collocati, dice testualmente la dr.ssa A. Angelillo,psicologa clinica e forense, “...ai vertici del potere; sono i cosiddetti psicopatici aziendali, i manager di successo, manager che non infrangono apertamente la legge, ma si servono delle tipiche caratteristiche dello psicopatico criminale medio (egocentrismo, insensibilità, tendenza a manipolare), associate però ad abilità cognitivo-intellettuali spesso superiori alla media, ad una intelligenza e a competenze sociali brillanti, oltre che a circostanze contestuali favorevoli, per ottenere potere rimanendo dietro una maschera di sanità immacolata“( trattoda “State of Mind” - il giornale delle scienze psicologiche dell’associazione SITCC- società italiana di terapia cognitivo comportamentale). La letteratura specialistica, segnala quindi che la cosidetta “psicopatia aziendale”, correlata alle organizzazioni di lavoro di tipo intellettuali, sta assumendo oggi una dimensione sociale.

La mia lunga esperienza professionale, iniziata prima dell’aziendalizzazione, può raccontare da vicino lo sviluppo e l’espansione in questi ultimi anni di queste personalità narcisistiche (“psicopatici aziendali”), le quali, anche se non direttamente coinvolte in omicidi e fatti eclatanti come quelli di Saronno, creano una difficile, a volte difficilissima, convivenza all’interno dei servizi, il cui modello organizzativo però tollera, e, anzi, molto spesso premia, per le dimostrate virtù manageriali. Che cosa allora, in questo sistema, inibisce l’affermazione e l’incarnazione da parte dei professionisti, dei valori ontologici del rispetto della dignità umana, della protezione della vita, del riconoscimento dei diritti e dei bisogni delle persone con le quali essi entrano in contatto, a prescindere dai ruoli e dalle relazioni di cura; e quali altri valori sociali, quale ideologia, invece, preme e contamina le coscienze dei professionisti all’interno dei contesti sanitari ?

L’attuale modello aziendale del nostro sistema sanitario, introdotto, come si ricorderà, come rimedio alla crescita incontenibile del debito pubblico durante il decennio degli anni 80, si basa sulle stesse dinamiche dell'economia di mercato regolato dalla domanda e offerta (di salute). Essendo fortemente centrato su una cultura manageriale, il sistema aziendale esprime un modello organizzativo estremamente gerarchico, con un sistema di valori ispirato alle abilità imprenditoriali capaci di produrre utili, di incrementare il volume delle attività e ridurre i costi di produzione. Il valore ontologico, e in particolare quello legato al rispetto e al riconoscimento dei bisogni e dei diritti fondamentali della vita e della persona, sia essa professionista che utente, in un tale contesto viene inevitabilmente declassato, e ridotto marginalmente a favore delle abilità tecniche e imprenditoriali, con cui si raggiungono gli obbiettivi di budget e finanziari. Ciò che, al di là dei proclami e delle buone intenzioni, il modello culturale dell’azienda valorizza e premia, non è certo la qualità etica e deontologica dei comportamenti umani, non sono le abilità e le competenze personali orientate al rispetto e alla promozione del benessere degli individui, non sono le capacità relazionali, l’empatia, e lo stile di lavoro orientato al sostegno e all’accoglienza, ma la quantità e la qualità delle performance tecniche, e il volume degli utili aziendali.

Se ciò che viene posto al centro del lavoro, e come tale premiato, non è il concetto di professionalità intesa nella dimensione olistica e integrata delle due qualità ontologiche dell’essere umano, quella dell’ “essere”, ciò che si “è”, che si esercita nel rispetto e nel riconoscimento della dimensione dell’essere dell’altro, e la qualità del “fare” con la quale si agisce e si “fa”, ma viene riconosciuta e gratificata solo quella del “fare”, legata alle abilità tecniche e al raggiungimento degli obbiettivi di budget, il valore ontologico del modello di professionalità trasmesso dall’organizzazione, costituisce, dal punto di vista culturale e filosofico, una vera e propria aberrazione. Di fronte a questa visone distorta e deviante della relazione di cura, i comportamenti squalificanti e perversi nei confronti delle persone, siano esse utenti che professionisti, perdono la loro illegittimità sociale e morale, e i professionisti saranno disposti non solo a chiudere un occhio, ma, come è accaduto nell’ospedale di Saronno, a voltare la faccia dall’altra parte.