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Bari. Svolta nel processo della Psichiatra uccisa in servizio. Rinviate a giudizio sei persone tra cui l'ex Direttore Generale. Il PM: non garanta sicurezza.

Giuseppe Provinzanodi
Giuseppe Provinzano
Pubblicato il: 23/06/2016 vai ai commenti

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Aveva 53 anni, tre figli, due gemelli di 12 e una più grande, una laurea una specializzazione in psichiatria.

Paola Labriola, la “DOTTORESSA DELL'ANIMA”, come sua figlia maggiore la definisce, è la dottoressa uccisa da un suo paziente con 28 coltellate alla schiena, nel corso di una visita nel Centro di Salute Mentale di Bari dove la donna prestava servizio.

La Procura di Bari insiste sul rinvio a giudizio di sei persone, tra le quali l’ex direttore generale della Asl di Bari Domenico Colasanto, nell’udienza preliminare sulla morte di Paola Labriola, la psichiatra barese uccisa il 4 settembre 2013 da un paziente mentre era a lavoro nel Centro di salute mentale di via Tenente Casale a Bari.

Nel procedimento è costituita parte civile la famiglia della vittima. Su sua richiesta il gup ha disposto la citazione della Asl di Bari come responsabili e civile. La vicenda penale riguarda le presunte responsabilità per la carenza di dispositivi di sicurezza nella struttura dove lavorava la dottoressa Labriola. Oltre all’accusa di omicidio volontario nei confronti dell’assassino, il 40enne Vincenzo Poliseno già condannato in appello a 30 anni di carcere, il pm della Procura di Bari Baldo Pisani ha infatti ipotizzato nei confronti di Colasanto i reati di morte come conseguenza di altro reato, omissione di atti d’ufficio e induzione indebita a dare o promettere utilità.

In concorso con l’ex dg rispondono di induzione indebita anche l’ex segretario di Colasanto, Antonio Ciocia e un altro dipendente della Asl di Bari, Giorgio Saponaro, per aver «pressato con insistenza» il funzionario Asl Alberto Gallo nella predisposizione dei falsi Dvr (Documenti di valutazione dei rischi). Accusati di falso materiale in atto pubblico lo stesso Gallo e altri due funzionari, Baldassarre Lucarelli e Pasquale Bianco.

Come sollecitato dalla famiglia della vittima, difesa dall’avvocato Michele Laforgia, «l'Asl Bari ha pacificamente disatteso la normativa in materia di sicurezza sul lavoro" perché «è certo - scriveva il marito della psichiatra nell’esposto depositato in Procura dopo il delitto - che se vi fosse stata una guardia giurata, un portiere, anche solo un infermiere in grado di intervenire prontamente, Paola Labriola sarebbe ancora viva: l’aggressione, con quelle modalità, non sarebbe stata possibile o, comunque, non avrebbe avuto lo stesso, tragico esito». Per i familiari «è evidente che la colpevole omissione di qualsiasi misura di prevenzione e sicurezza abbia contribuito in modo determinante all’omicidio di Paola Labriola, del quale devono ritenersi pienamente corresponsabili tutti coloro che avrebbero dovuto garantire l'incolumità degli operatori del Csm». L'udienza preliminare proseguirà il 18 ottobre con le arringhe difensive.

Fonte: lagazzettadelmezzogiorno