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Infezioni ospedaliere e farmaco-resistenza: a che punto siamo?

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La Redazione
Pubblicato il: 11/05/2016 vai ai commenti

NurSind dal territorio

Le infezioni nosocomiali rappresentano un capitolo dell’ igiene di fondamentale importanza nel più ampio contesto della Medicina clinica e preventiva: salute e malattia non sono più concetti statici analizzabili secondo un modello bio-medico ma risentono della continua risonanza tra ambiente e persona. Ed è proprio durante il periodo di ospedalizzazione che il polinomio paziente-operatore-ambiente-pratica clinica può convergere verso un esito infausto, non scevro dal rischio di morte. Se da una parte l’ accorciamento dei tempi di ricovero ha abbassato il rischio di sviluppare una sintomatologia palesabile entro le 48-72 ore che definiscono il quadro classico di infezione nosocomiale, dall’ altra il fiorire di strutture a carattere sanitario che completano l’ iter diagnostico-terapeutico (lungodegenze-ambulatori) può favorire il ricircolo dei microorganismi col rischio di nuova ospedalizzazione e contagio. I responsabili sono in genere batteri come lo Stafilococco, la Klebsiella, lo Pseudomonas, l’ Acinetobacter, l’ Escherichia o il Clostridum: ognuno di questi può presentare un trofismo particolare per un distretto anatomico specifico e (complici stati immunodepressivi o pratiche cliniche invasive) colonizzarlo con riattivazione virulenta che sfociante in una sintomatologia da considerare.

Recentemente una ricerca durata otto anni condotta a La Spezia ha mostrato un abbassamento quasi del 4% del tasso di frequenza di queste infezioni: un risultato importante se confrontato con la media nazionale che si attesta intorno a 10 con punte anche di 20 nelle regione meno virtuose. Tale decremento trova merito, in larga parte, all’ottimizzazione delle procedure e alle campagne di sensibilizzazione e formazione del personale sanitario ed esterno (visitatori, parenti etc). Sempre in seno allo studio di prevalenza citato, l’analisi di 322 cartelle cliniche ha evidenziato che 17 delle infezioni contratte in realtà non erano di origine nosocomiale ma provenivano da altre strutture.

Nonostante il risultato positivo e consapevoli che il rischio di infezione contratta in ambiente di ricovero non sia mai del tutto azzerabile, la visione generale, secondo gli epidemiologi, rimane ancora nella fascia rossa di allarme: ogni anno si verificherebbero un numero variabile tra 400 e 700 mila nuovi eventi infettivi con un picco di morte fino a 2100 casi; almeno il 3% del totale dei casi sarebbero evitabili.

Purtroppo, a procedure standardizzate e ottimizzazione delle condizioni volte a scongiurare un’ infezione, rimane ancora il problema legato all’ abuso di antibiotici con sviluppo di farmaco-resistenza. La riduzione di efficacia di un farmaco è l’acquisizione di caratteristiche di resistenza che il microorganismo assume dopo mutazioni del proprio DNA e che trasmetterà alla prole: se si pensa alle prolifiche replicazioni batteriche che originano in 24 ore da un solo ceppo patogeno si intuisce l’ elevatissimo numero di cloni, anch’essi resistenti, che si ottengono in pochissimo tempo. L’ uso errato di antibiotici (per mole o per dosaggio) non è però solo un problema ascrivibile alle strutture sanitarie ma si estende anche al fai-da-te domestico: questo aspetto non è da sottovalutare.

Geograficamente si segnalano il Centro ed il Sud più svantaggiate rispetto al Nord, dato estrapolato da un articolo apparso su QS e derivato dalle indagini AIFA; secondo lo studio il 9% degli italiani assume antibiotici senza prescrizione medica, limitandosi o a non consumare tutta la terapia (sospesa quando scompare il sintomo) o ad abusarne. Dosi e tempi errati sono due temibili nemici dell’ efficacia farmacologica perché permettono al microorganismo sopravvissuto di “metabolizzare” l’ avversario e attivare processi bio-sintetici di risposta che sfociano nella farmacoresistenza. A questo punto l' eventuale ingresso della persona in una struttura sanitaria o un contagio verso un' altra persone immunodepressa danno vita al ciclo del microorganismo resistente.

 

Negli altri Stati Europei (dove l’Italia a confronto presenta dati preoccupanti) per ovviare ai problemi che possono presentarsi nella gestione domestica, si sono pensate soluzioni mono-dose personalizzate del trattamento farmacologico da effettuare, non conservabili e non riutilizzabili. Questa accortezza sembra abbattere il rischio relativo al left-overs, cioè a quelle dosi superiori rispetto a quelle clinicamente necessarie che vengono consumate senza una giustificazione epidemiologica.

 

In Italia, l’ AIFA invita le regioni più virtuose come l’Emilia Romagna a mettere a disposizione delle realtà meno formate le linee guida sull’uso di antibiotici per patologie come l’ otite e la faringo-tonsillite in età pediatrica: è auspicabile che questo possa avvenire anche per i risultati raggiunti nei nosocomi più funzionanti in modo da fermare l’attuale gradiente geografico negativo.

Dal punto di vista infermieristico, essendo l’ Infermiere uno dei protagonisti fondamentali del processo di gestione della terapia, potrebbe esso entrare a pieno regime nelle soluzioni proposte per abbassare il rischio. Le parole chiave rimangono le stesse di sempre: formazione continua, condivisione de risultati, impiego di più risorse territoriali e maggiore attenzione alla programmazione dell’assistenza in ambito domiciliare. La creazione di un idoneo sistema infermieristico di sorveglianza, coadiuvando quello di farmaco-vigilanza attuale, aumenterebbe sicuramente il tasso di successo delle strade intraprese.

 

Fonti:

http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=39490

http://www.cittadellaspezia.com/La-Spezia/Attualita/Sanita-alla-Spezia-diminuiscono-le-207106.aspx