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Il “gaslighting” sui luoghi di lavoro: cos’è e come identificarlo

Vincenzo Rauccidi
Vincenzo Raucci
Pubblicato il: 18/05/2022 vai ai commenti

AttualitàProfessione e lavoro

Con il termine gaslighting si fa riferimento al processo di manipolazione di una persona con l’obiettivo di farla dubitare di sé stessa e della sua stessa sanità mentale.

Il termine deriva dal titolo dell’opera teatrale “Gas Ligth” (anche conosciuto come Allied Street), del 1938, del drammaturgo britannico Patrick Hamilton (1904-1962). Racconta di un marito che cerca di portare la moglie alla pazzia manipolando piccoli elementi dell’ambiente. Per esempio, produce rumori che finge di non sentire o abbassa le luci in casa, ma nega sempre quando la moglie fa delle domande. Negando la realtà si insinua nella mente della donna, che inizia ad avere dubbi sulla sua capacità di percezione.  Successivamente sono stati realizzati due adattamenti cinematografici, uno del 1940, “Rebecca la prima moglie”, di Alfred Hitchcock (1899-1980) e l’altro del 1944, “Angoscia”, di George Cukor (1899-1983).

Lo scopo di chi usa questa pratica è quella di ridurre la vittima ad un livello totale di dipendenza psicologica e fisica.

Se è vero che tali situazioni sono più frequentemente riscontrabili all’interno di relazioni di coppia, è altrettanto vero che è possibile rilevarle anche in contesti lavorativi.

In questo caso, l’abusatore può essere un collega alla pari oppure un superiore, per titoli o responsabilità.

L’obiettivo del gaslighter rimane sempre quello di destabilizzare le sicurezze della vittima, di sottometterla e impedirle di esprimere le proprie idee, facendo sì che essa non possa vivere alcun benessere lavorativo e diventi “dipendente” dal suo carnefice. 

Un esempio concreto potrebbe essere quello di un dipendente che, durante una riunione di lavoro, propone un tema per lui importante e successivamente il capo nega completamente di aver ricevuto quella proposta. Questo provoca un senso di confusione nella persona, che può arrivare a dubitare di sé stessa.

Il gaslighting sul posto di lavoro può anche essere il risultato di pregiudizi e può colpire sia gruppi, sia individui.

Ci sono almeno 4 elementi, riscontrabili sul lavoro, caratteristici del gaslighting:

  • la difficile situazione lavorativa si basa su pregiudizi e negatività individuali, di gruppo o istituzionali persistenti, piuttosto che prove solide, fatti forti, casi consolidati e/o dati comprovati;
  • il difficile ambiente di lavoro crea una narrativa negativa/sfavorevole sul soggetto preso di mira (contrariamente alle prove) e danneggia la reputazione personale o professionale dello stesso;
  • il maltrattamento persiste per un periodo di tempo, nonostante il malcapitato lavori e collabori apportando validi contributi e risultati positivi;
  • quando viene avvicinato sulla questione, il gaslighter (colui che provoca il gaslighting) in genere nega i maltrattamenti e può diventare difensivo, polemico, sprezzante e/o evasivo. Invece di usare la verifica e i fatti per risolvere i problemi, il gaslighter può intensificarsi e diventare più aggressivo, o ostruire e diventare più passivo-aggressivo.

Qui di seguito, invece, ecco quali possono essere i segnali che possono farvi sospettare di un atteggiamento configurabile come gaslighting:

  1. narrativa negativa persistente sulle prestazioni, la credibilità, il prodotto o il servizio del soggetto preso di mira; tipicamente, la negatività si basa sul giudizio personale e su accuse distorte, piuttosto che su fatti e validità;
  2. gossip negativo persistente sulle caratteristiche professionali e/o personali della vittima; anche il pettegolezzo negativo è una forma di aggressività passiva;
  3. commento pubblico negativo persistente in gran parte basato su falsità o esagerazioni piuttosto che su prove e fatti concreti, il che danneggia la credibilità professionale e la reputazione personale del soggetto;
  4. umorismo negativo e sarcasmo persistenti; esprimere ostilità o condiscendenza mascherata da umorismo/sarcasmo per prendere in giro, deridere, sminuire ed emarginare il soggetto preso di mira, spesso seguito da “ma stavamo scherzando!”;
  5. esclusione professionale persistente da possibilità di sviluppo professionale, promozione, avanzamento, leadership e altre opportunità quando il malcapitato è chiaramente capace e qualificato per partecipare, senza ragionevole giustificazione;
  6. bullismoe intimidazione persistenti e verificabili sul posto di lavoro;
  7. trattamento iniquo persistente e verificabile rispetto ad altri dipendenti di esperienza e capacità simili o inferiori, nonostante un forte record di collaborazione positiva e contributi degni di nota; significativamente, quando interrogato sulla questione, il gaslighter può indirizzare in modo errato e incolpare il malcapitato di essere la causa della propria vittimizzazione.

Eccovi alcune “frasi tipo” che più spesso il gaslighter pronuncia:

  • “Sei tu che ricordi male”
  • “Stai inventando delle cose”
  • “Non è mai successo”
  • “Hai le allucinazioni”
  • “Stai facendo un melodramma per niente”
  • “Stai gonfiando le cose”
  • “Stai bene? Mi sto preoccupando per te perché dici cose strane”
  • “Non me l’hai mai detto! Te lo sei immaginato!”
  • “Sbagli sempre tutto: mai una giusta!”
  • “Tu non sei proprio nessuno!”
  • “Ma non puoi essertene dimenticato: me l’hai detto tu!”
  • “Vedi che non sei capace?”
  • “Con te non si può mai scherzare”.

Il gaslighting, in conclusione, si basa sulla necessità di potere, controllo o occultamento: si riferisce a un modello deliberato di manipolazione che è stato calcolato per far sì che la vittima si fidi del gaslighter e inizi a dubitare effettivamente delle proprie percezioni della realtà o della sanità mentale.

In Italia non viene riconosciuto come un crimine dal nostro Codice Penale ma spesso i giudici ritrovano, nell’atteggiamento del gaslighter, altri elementi compresenti quali i maltrattamenti, la violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minaccia e lo stalking.

Da tempo la Cassazione sostiene che il reato di maltrattamenti sussista non solo con le percosse, le lesioni e le minacce, ma anche con umiliazioni, atti di disprezzo e di offesa, quando generano afflizioni morali.

Per ritenere configurato il reato di atti persecutori occorrerà, dunque, dimostrare nel caso concreto la sussistenza di tutti gli elementi richiesti dall’art.612 bis del Codice Penale, soprattutto il perdurante e grave stato di ansia, di paura o il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita.