Lettera di un infermiere: vorremmo riconoscimento, non riconoscenza; il nostro impegno lontano dalla ribalta
a cura di Chiara D'Angelo
Accade così… a volte, quasi per caso… che una vita ordinaria diventi una storia importante da raccontare... Una storia, una vita che, dal punto geografico in cui inizia, assume un’importanza ed una significatività che si espandono a macchia d’olio fino a sfiorare e poi inevitabilmente a toccare in modo tangibile i vissuti di tutti, seppur in misura e con incisi diversi. Ed oggi richiamiamo questa storia di forte impatto emotivo, indugiando col pensiero sulla parte conclusiva che raggiunge noi infermieri nel vivo del nostro orgoglio e della nostra dignità professionale.
Accade che una giovane donna viene colpita da ictus (Clicca qui per leggere la storia); l’ottima assistenza ricevuta in un ospedale pubblico (Modena) fa sì che la donna non abbia alcuna conseguenza dal preoccupante episodio. Il marito decide di raccontare la sua storia, sottolineando la professionalità dei medici, ma dimenticandosi di citare altre professionalità seppur queste abbiano avuto, nell’iter della vicenda, un ruolo fondamentale.
Ed accade che un Infermiere, un Grande infermiere, decide di scrivere una lettera a questo marito e cittadino… lettera che, per la profondità e la disarmante veridicità che la permeano, abbiamo deciso di riportare integralmente di seguito...
Buongiorno Stefano,
mi chiamo Giulio e lavoro presso una delle terapie intensive dell’ospedale civile di Baggiovara, ospedale in cui la bellissima storia che ha saputo raccontarci e che ha commosso migliaia di persone ha preso forma.
L’ho letta quella storia, tutta d’un fiato, senza perdermi una singola sillaba, ripercorrendo con la mente luoghi e passaggi che conosco alla perfezione e che sua moglie ha dovuto affrontare nel momento più buio, fino a tornare a vedere la luce e poter riabbracciare i suoi cari.
E’ una storia che ho sentito anche un po’ mia, come sento mie tutte le storie dei pazienti che vedo passare quotidianamente davanti ai miei occhi, del loro dolore, dello sconvolgimento che un attimo, un solo attimo, può portare nella loro vita e in quella dei loro nuclei famigliari, proprio come è successo a voi. Decine, centinaia, migliaia di pazienti che tutti i giorni in cui usciamo di casa per andare a timbrare il cartellino accompagnamo in un difficile percorso verso un ritorno alla normalità, o ad una vita dignitosa imparando a convivere con malattie che lasciano segni profondi nel corpo e nell’anima, ma anche verso la morte, verso quel grande buio che rappresenta ancora il mistero più grande e per questo più spaventoso.
Pazienti, ma ancor prima persone, per cui passiamo le notti lontano da casa, per cui non ci sono festività che contino, per cui non è detto che il giorno di Natale siamo a scartare i regali accanto alla nostra famiglia, e per i quali a volte il capodanno si trasforma in un fugace brindisi a(na)lcolico tra una terapia e l’altra: perché queste persone, nel momento più difficile, hanno il diritto di avere un’assistenza adeguata e preparata, in qualsiasi momento questo avvenga.
Giunto a questo punto, giustamente, lei si starà chiedendo quale sia il motivo che mi ha spinto a scriverle: bene, questo motivo è che io sono un Infermiere. Un Infermiere. Lo dico con il grande orgoglio di appartenere a questa categoria un po’ bistrattata e spesso dimenticata: nell’immaginario collettivo, ancora una volta confermato dal suo racconto, è il medico-eroe che salva le vite, e spesso ci si dimentica di quei tanti che formano il microcosmo di un ospedale e che occupano un ruolo indispensabile nel processo di cura.
Probabilmente lei (non gliene faccio una colpa, so bene come è la percezione da parte di chi è esterno a questo mondo) non è a conoscenza del fatto che a Modena possiamo vantare di un efficientissimo sistema di Emergenza-Urgenza 118 che ruota attorno alla figura dell’infermiere, addestrato sul territorio a compiere manovre avanzate e a somministrare farmaci salvavita in totale autonomia con l’ausilio di protocolli operativi, e che la stessa procedura per la gestione degli Stroke che ha permesso di gestire e soccorrere così rapidamente sua moglie nel migliore dei modi è stata scritta a 8 mani, 4 delle quali erano di infermieri. E probabilmente non è al corrente che in pronto soccorso, quella bolgia in cui vengono visitate e trattate decine di persone ogni giorno, sono gli infermieri a decidere, in un batter d’occhio e con l’ausilio della sola esperienza e di una breve anamnesi, la gravità dei pazienti che vi accedono e a stabilire quindi le priorità di trattamento.
Sempre gli infermieri che nei reparti si trovano a somministrare terapie chilometriche di ancor più chilometriche corsie, continuamente interrotti da chi chiama per una padella, per aprirgli la bottiglietta dell’acqua, per sapere che strada fare per raggiungere questo e quel reparto, per sapere dove è la cartella di quel tal letto, per ricevere la lista operatoria del giorno successivo, secondo un obsoleto modello che vede la nostra professione come i factotum dell’ospedale, e non ci riconosce dei professionisti laureati ed abilitati con compiti (sulla carta) specifici.
E ancora, sono gli infermieri che nelle terapie intensive gestiscono farmaci che si misurano in microgrammi con sofisticate pompe infusionali, utilizzano ventilatori polmonari e macchine per la dialisi, hanno dimestichezza con l’ecografo, e tante altre cose che non sto qua ad elencare perché questo breve scritto non vuole e non deve essere uno strumento di auto-incensamento della categoria. No, nessun auto-incensamento, nessuna presunzione, nessuna mania di grandezza in tutto questo.
Ma ora si fermi un attimo, un solo secondo, e provi a pensare; ha ringraziato e portato agli onori della cronaca il competentissimo dottor Zini, e la bravura e l’intuizione con cui il dottor Vallone ha saputo districarsi in una situazione complessa dando a sua moglie la seconda chance che meritava di avere. Ma ricorda il nome di almeno un infermiere, uno solo, di tutti quelli che si sono avvicendati al capezzale della sua consorte? A partire da quelle persone scese dall’ambulanza (si, glielo posso dire con certezza: non erano medici, eppure hanno riconosciuto e trattato al meglio il problema indirizzandola nel posto giusto e con i tempi giusti, come ogni linea guida dice di fare), passando all’equipe del pronto soccorso per arrivare al personale che compone il reparto di Neurologia/Stroke Unit del nostro nosocomio. Probabilmente no, e come lei la maggior parte dei pazienti e dei parenti che transitano per i nostri corridoi: non per questo noi smettiamo di fare il nostro lavoro, o lo facciamo con meno passione.
Non ci interessa essere i signor-NESSUNO, quelli che lavorano dietro le quinte e che nessuno ricorda. Ci basterebbe che la nostra professionalità venisse riconosciuta, che non ci proponessero solo trattative al ribasso, che non ci impedissero anche le più piccole possibilità di carriera, che il nostro lavoro non venisse continuamente svilito e denigrato. Non vivo positivamente quando sento parlare della nostra come “missione”: il nostro è un lavoro, per cui studiamo anni in università, facciamo master e lauree specialistiche, corsi abilitanti e concorsi. Tutto questo non può essere solamente una “missione”, perchè proprio finchè se ne parlerà in questi termini la nostra professione non farà mai davvero un passo in avanti nell’immaginario collettivo.
Se ho scelto di scriverle non lo faccio per una pubblicità personale, non mi interessa. La sua storia è finita giustamente su Repubblica, la mia lettera la mando solamente a lei, con il desiderio di farle conoscere una piccola parte del nostro grande, enorme mondo.
Con il desiderio che un giorno gli stessi infermieri che oggi manifestavano in gran numero a Roma contro i continui tagli che non ci danno più gli strumenti materiali con cui lavorare in sicurezza, un giorno passano essere riconosciuti come parte integrante del processo e come professionisti intellettuali.
E chissà che proprio nell’opinione pubblica rappresentata da voi giornalisti qualcosa, presto o tardi, non inizi a muoversi.
Ancora una volta esprimendole le più grandi felicitazioni per la sorte di sua moglie, e augurandovi di potervi godere nel migliore dei modi questa seconda possibilità che la vita vi ha dato, le porgo i più cordiali saluti.
Un infermiere idealista Giulio Palazzi