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Tutto chiede “chiarezza”. Riflessioni infermieristiche sulla miniserie di Netflix

Vincenzo Rauccidi
Vincenzo Raucci
Pubblicato il: 27/10/2022

AttualitàPunto di Vista

In questi giorni ho guardato la miniserie Netflix, tratta dall’omonimo libro di Daniele Mencarelli, “Tutto chiede salvezza”. Si tratta di una storia che narra l’esperienza vissuta da un ragazzo, in un reparto di Psichiatria, durante i sette giorni del Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Devo confessare, da cinefilo e da infermiere di Salute Mentale, che il lavoro di Francesco Bruni (notissimo e bravissimo sceneggiatore e regista) mi è piaciuto. Ciò che Mencarelli ha voluto raccontare attraverso la storia, autobiografica, del libro, è arrivato, preciso preciso ai nostri cuori e alla nostra pancia.

Raccontare della salute mentale non è facile, soprattutto in questi tempi così veloci, cinici, selettivi. Lavori pregevoli fatti da altri registi, in passato, si rivolgevano ad un pubblico più adulto, ovvero a coloro che, come me, hanno vissuto direttamente o indirettamente l’inizio e la prima fase della rivoluzione basagliana.

Rivolgersi ai giovani, oggi, non è facile su temi come questi ma, come dicevo, Bruni ci è riuscito.

Rispetto alla mia licenza poetica riportata nel titolo (“chiarezza” al posto di “salvezza”), è necessario che io da infermiere, spenda due parole anche su alcune inesattezze che si possono osservare nella miniserie.

Inesattezze che hanno sollevato un gran polverone sui social.

L’attore Ricky Memphis interpreta un infermiere (Pino) un po’ “cialtrone”, molto approssimativo, spesso beccato, in alcuni fotogrammi, a distribuire il pasto e a ramazzare il pavimento.

Siamo di fronte all’ennesima, deludente trasposizione della nostra professione su una pellicola cinematografica. Una trasposizione fatta senza tener conto, neppure minimamente, di raccontare ruolo e competenze dell’infermiere del terzo millennio.

Ma, come spesso faccio in situazioni simili, laddove decido di puntare il dito verso produzioni troppo superficiali, giro poi il dito verso me, che poi sarebbe “noi”, ovvero il corpus infermieristico. E mi chiedo se tutto ciò che ci capita di vedere qua e là, sui mass media, al cinema o in televisione sia solo ed esclusivamente colpa degli altri cattivoni che se ne fregano di noi poveri infermieri.

Mi chiedo se non valga il principio del contadino, ovvero che raccogli ciò che semini. In altre parole: siamo così sicuri di fare tutto ciò che è in nostro potere per prevenire certe “distrazioni” al cinema o sui giornali?

Una bella riflessione ce l’ha proposta, in questi giorni, il collega Nicola Draoli, referente politico della FNOPI per la Comunicazione, in un pezzo dal titolo “Tutto chiede salvezza. Ma anche riflessioni più ampie”.

La riflessione che ha condiviso Draoli, forse in certi passaggi troppo conciliatoria, contiene a mio parere una profonda verità: siamo artefici del nostro destino. Sarebbe stato facile scrivere l’ennesimo pezzo su quanto sono “spietati e superficiali” gli altri, le case di produzione, i giornalisti, gli opinionisti, i politici e così via. Draoli si è esposto con coraggio verso una riflessione che, per il nostro corpus professionale, è forse molto più importante che fare gli incompresi: guardarci in faccia e capire come interfacciarci col resto del mondo. 

Raccogliamo ciò che seminiamo: ne sono sempre più convinto!

E ora andate a gustarvi una bella storia, su Netflix, e cerchiamo di guardare un po’ più in là del nostro naso, senza lasciarci sedurre da affrettate e superficiali considerazioni. L’ho scritto più e più volte anche da altre parti: la nostra professione è alimentata da pregiudizi e per un vero cambiamento culturale bisogna “seminare querce”, ovvero lavorare sodo oggi per vederne i frutti tra vent’anni.