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Infermieri salvano uomo in metro. Tra eroismo quotidiano e lotta per il riconoscimento professionale

Vincenzo Rauccidi
Vincenzo Raucci
Pubblicato il: 27/03/2024 vai ai commenti

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Molti di voi avranno già letto, su quasi tutta la stampa nazionale, dei due colleghi di Milano che hanno rianimato una persona in arresto cardiaco all’interno della Metropolitana milanese.

Si tratta di Simone Oliva e Francesca Taddio, giovanissimi colleghi laureatisi in Infermieristica all’Università di Salerno, che vivono e lavorano a Milano dal 2022, lui libero professionista, lei in servizio all’ospedale San Paolo.

Molti li hanno definiti “eroi” ma loro ci tengono a precisare che gli eroi sono un’altra cosa: loro hanno agito secondo i dettami del codice deontologico, come ogni buon professionista dovrebbe fare e gli è riuscito bene, poiché la persona che era andata in arresto, come già detto, ha riacquistato le funzioni vitali in pochi, preziosissimi minuti.

Ho incontrato Francesca Taddio e le ho sottoposto alcune domande.

Ciao, Francesca e grazie innanzitutto per la tua/vostra disponibilità. Ci puoi raccontare l'esatto instante in cui avete avvertito la presenza di una situazione di emergenza?

“L’istante preciso in cui abbiamo capito si trattasse di un’emergenza è stato quando, nel ragazzo senza coscienza, abbiamo rilevato il polso carotideo. Non c’era battito. Dopo essercene accertati entrambi, abbiamo valutato le vie aeree tramite la manovra GAS (Guardo, Ascolto, Sento, n.d.r.) per circa 10 secondi in quanto era l’unico modo per accertarci della reale situazione in quel contesto. Ci siamo resi conto che non c’era né respiro e né movimento del torace e dell’addome, quindi attività respiratoria. Lì abbiamo applicato i criteri della catena di sopravvivenza: Simone ha iniziato le compressioni e io ho chiamato il 118. Intanto all’inizio avevamo pensato di chiedere un defibrillatore ma dopo circa 9/10 compressioni abbiamo notato la ripresa dei primi segni di circolo e dell’attività respiratoria. Il polso è ritornato molto flebile e piano piano ritmico ma tachicardico, la frequenza respiratoria all'inizio bradicardica, poi tachidispnoica e infine eupnoica. Infine è tornata la coscienza. Il riflesso pupillare era presente, rispondeva ai vari stimoli sia dolorosi che verbali ma non riusciva a tenere gli occhi aperti, stringeva i pugni perché aveva dolore, riferito da lui stesso. Lo abbiamo stabilizzato, posizionato in posizione di sicurezza e gli abbiamo posto delle domande. Nel frattempo cercavamo di tenerlo vigile e intanto lo abbiamo monitorato con un saturimetro che ho ricordato di avere in borsa. La saturazione era tra il 97% e il 99% mentre la frequenza variava tra i 120 e 150 bpm. Io rivelavo anche la frequenza tramite il polso radiale per capire se il polso fosse in ritmo o meno e fortunatamente era apparentemente in ritmo”.

Quanto è stato complicato gestire l'arresto cardiaco in un setting non certo ideale?

“È stato complesso abbastanza ma non troppo. In realtà il pavimento era abbastanza duro per l’attuazione delle compressioni ma lo spazio molto ridotto anche se Simone è riuscito a mettersi in ginocchio di fianco al ragazzo per valutare il torace ed eseguire le compressioni. La gente per fortuna ha rispettato i nostri spazi ma soprattutto non c’erano tantissime persone sulla metro quindi siamo riusciti ad intervenire tempestivamente. Fortuna ha voluto che il ragazzo cadesse proprio dietro di noi quindi l’intervento è avvenuto immediatamente. Ci sentivamo comunque impediti perché il nostro cervello ragionava come se fossimo in ospedale ma eravamo consapevoli di non essere lì. In ospedale sai di avere un accesso venoso da cui somministrare i farmaci per la ripresa del paziente, di avere un pallone ambu per insufflare aria, di avere l’ossigeno e di monitorare i parametri vitali del paziente mentre in quel setting eravamo completamente sforniti di tutto; l’unica cosa che ci ha rasserenato è stata la presenza del mio saturimetro”.

Ho letto della presenza di un “disturbatore”. Ci puoi dire qualcosa di più?

“Come già detto non vorremmo rilasciare troppe dichiarazioni su questa persona. Era una persona instabile mentalmente che cercava inizialmente di disturbarci e distrarci durante il monitoraggio del ragazzo. Ci ha chiesto chi fossimo e noi gli abbiamo detto che siamo, appunto, infermieri. Lui dopo aver saputo questo ha iniziato a darci ancora più fastidio come se volesse sfidarci e a quel punto noi gli abbiamo chiesto di allontanarsi. All’arrivo dei soccorsi ha poi iniziato a minacciare pesantemente Simone tanto da farlo uscire dalla metro per chiarire la situazione. Alla fine sembrava ci fosse stato un chiarimento con annesse scuse di Simone per evitare altro. Nonostante tutto, la persona ha continuato a fissarci e tenerci d’occhio tutto il tempo fino a proseguire insieme ai soccorritori, avviandosi dal loro lato. Noi poi per timore abbiamo evitato di prendere quell’uscita senza accompagnare i soccorritori fino all'ambulanza”.

Lo scenario che ci hai appena descritto sembra la metafora della condizione infermieristica: mentre gli infermieri fanno il loro quotidiano dovere negli scenari ospedalieri e territoriali, con competenza e professionalità, c’è un “elemento estraneo” che mette a dura prova la propria serenità lavorativa. Questo soggetto è rappresentato a volte dal cittadino, che spesso non comprende il reale valore degli infermieri, altre volte dai medici, che temono un “furto” di competenze, altre volte dagli amministratori, che non ci mettono nelle migliori condizioni lavorative. In che modo pensi si possa uscire da questa situazione?

“Difficile rispondere. In realtà conta molto la professionalità e il riuscire a mantenere la lucidità, la calma e l’attenzione verso ciò che conta in quel momento.  Ci troviamo sempre in contesti di distrazione o disturbo, anche quando si sta eseguendo una semplice procedura ed è complicato non innervosirsi. Crediamo che tra i tanti problemi che l’infermiere si trova ad affrontare quotidianamente questo sia uno dei più gravi perché mette a rischio la nostra responsabilità e la nostra capacità di giusta esecuzione dell’atto che stiamo compiendo in quel momento. L’unico modo è rimanere concentrati senza farsi prendere da ciò che accade intorno”.

Avete compiuto un gesto che vi fa onore e che inorgoglisce l'intero corpus professionale. Cosa vi è rimasto addosso, in termini di emozioni, di tutta la vicenda? E cosa, invece, dal punto di vista professionale?

“A livello emozionale ci è rimasto tanto. Simone afferma di essersi sentito “rinato” nel momento in cui sono ritornati i segni di circolo nel ragazzo, io invece ho provato una sensazione indescrivibile appena ho rilevato di nuovo il polso, inizialmente molto flebile. È come se una scossa mi avesse pervaso. Non riesco a trovare le parole giuste. La soddisfazione, poi, di essere stati tempestivi, aver mantenuto la lucidità e di aver visto subito la ripresa di circolo, respiro e coscienza del ragazzo è stata enorme. Lì per lì ci siamo guardati e abbiamo come tirato un sospiro di sollievo, a casa invece ci siamo sentiti quasi ubriachi di felicità: non riuscivamo a credere che ciò fosse successo a noi e che fosse reale.  A livello professionale ci portiamo un valore aggiunto. Sapevamo già fare le manovre di rianimazione cardiopolmonare, le abbiamo eseguite varie volte sul posto di lavoro ma mai in un setting esterno. È diverso il contesto ma anche la sensibilità. Non era un ambiento protetto in cui ci trovavamo solo noi e il paziente ma intorno c’era altra gente che guardava e soprattutto avvertivamo la paura e il clima di tensione che si era creato. Ci rendiamo conto di aver fatto solo il nostro dovere da infermieri e siamo fieri di quello che abbiamo fatto, nonostante i rischi e le responsabilità che ne sarebbero potute derivare. Abbiamo pronunciato un giuramento che siamo pronti a rispettare, veniamo guidati da una deontologia precisa. Siamo orgogliosi della nostra professione, la viviamo con amore e passione ogni giorno nonostante la fatica, i sacrifici, le difficoltà, le scarse condizioni lavorative, il riconoscimento economico e professionale ingiusto, la violenza verbale e fisica subìta, le responsabilità e i rischi che ci travolgono ogni giorno. Abbiamo scelto questa professione perché pensavamo fosse ciò che ci avrebbe gratificato di più ma soprattutto ci avrebbe insegnato tanto. È importante che i giovani capiscano quanto sia bello e denso di sacrifici questo lavoro che è più di un lavoro. Infermieri lo si è dentro e fuori la divisa. Si è infermieri, non lo si diventa. Speriamo che questa professione cresca sempre più e riceva le giuste riconoscenze ma soprattutto le venga data il giusto valore. Siamo professionisti intellettuali, capaci di formulare diagnosi infermieristiche, di accertare, pianificare, attuare e valutare, che si occupano di “un’assistenza preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa di natura tecnica, relazionale ed educativa” come recita il nostro profilo professionale. Siamo molto più di quello che tutti vogliono far credere o credono. La nostra professione ha bisogno di elevarsi di livello. Noi ci crediamo ma per cambiare le cose bisogna intervenire, esporre le problematiche che ci affliggono nel quotidiano e lottare per cambiare le cose, essere uniti. Bisogna che la nostra categoria non resti ferma a guardare. Ciò che è importante è usare sempre testa e cuore in questo lavoro ma soprattutto amarlo e onorarlo, nonostante tutto”.

Ringrazio Francesca e, ovviamente, anche Simone per la loro disponibilità.

 Rivolgo un’ultima domanda a Giovanni Migliaccio, Segretario Territoriale NurSind Milano.

Mentre da una parte gli infermieri hanno acquisito conoscenze tali da salvare vite umane in totale autonomia, dall’altra le attuali regole, in vigore nel nostro Paese, non gli permettono nemmeno la prescrizione di un pannolone per i soggetti incontinenti. Cosa dobbiamo ancora dimostrare, secondo te, per acquisire la benevolenza legislativa dei nostri governanti?

“La professionalità della figura infermieristica ormai non è in discussione, ed episodi come quelli accaduti ai due colleghi, con i quali ho avuto già il piacere di congratularmi e di ringraziare personalmente, confermano che investire in formazione e soprattutto nella formazione specifica di professionisti rappresenta un vantaggio per tutta la collettività, restituisce un outcome anche fuori dalle mura nosocomiali.

Quello che ancora oggi, nella pratica quotidiana, manca è il reale riconoscimento sociale della professione infermieristica, ancora troppo subordinata, vincolata e legata a stereotipi che impediscono di ritagliarsi il ruolo di primo piano che gli spetta.

Un primo input dovrebbe arrivare dalle istituzioni e dai governi che attraverso interventi legislativi mirati e concreti potrebbero dare lustro una buona volta a questa professione, e renderla attrattiva nuovamente per i giovani. Superamento del vincolo di esclusività, riconoscimento di una maggiore autonomia professionale, possibilità di carriera e specializzazioni anche in ambito clinico, riconoscimento come lavoro usurante, sono solo alcune delle cose che, volendo, si dovrebbero fare per riscattare una volta per tutte questa professione. Come sindacato noi portiamo avanti queste tematiche assieme a tante altre ma ci scontriamo con la tanta retorica delle istituzioni e delle altre sigle sindacali”.