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Quando perdiamo un infermiere perché la professione è ingrata

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Pubblicato il: 19/08/2015

EditorialiNursing

Introduzione di Chiara D'Angelo

 

Ci sono episodi di vita professionale, fra gli infermieri, che non balzano alla ribalta.

Ci soffermiamo spesso sui grandi interrogativi che popolano il futuro della nostra professione, dibattendo, discutendo, anche litigando con le varie espressioni della società civile, (politica, sindacati, rappresentanze professionali) e talvolta anche con noi stessi.

Ma il fine ultimo è, per noi, uno solo, e merita questo sacrificio: disegnare e raggiungere quella che, secondo noi, dovrà essere l’infermieristica del futuro, partendo da quello che l’infermieristica è oggi, da quello che dovrebbe essere e non è, da quello che dobbiamo aspettarci (noi infermieri e cittadini) per il domani.

Ma ai margini (per visibilità, non certo per pregnanza di valori) di queste battaglie ci sono Infermieri che ogni giorno lottano, nella propria vita e sulla propria pelle,  con le discordanze del sistema: demansionamento, autonomia professionale negata, mancato riconoscimento delle competenze, mancati percorsi di carriera, retribuzioni non proporzionate al profilo professionale, ecc.

Abbiamo ricevuto e pubblichiamo uno scambio di lettere tra due nostre colleghe, Barbara e Maria Luciana, che mette a nudo, con la libertà e la franchezza del dialogo privato, lo stato di frustrazione che questo sistema incongruente crea nei professionisti che vi si trovano impiegati e, per certi versi, intrappolati.

Racconta la scelta di Barbara, laureata in Fisica e ricercatrice ENEA, che dopo aver deciso (in seguito a una missione umanitaria) di abbracciare la professione infermieristica, laureandosi brillantemente e altrettanto brillantemente inserendosi nel sistema sanitario, ha poi deciso di abbandonare questa stessa vocazione per tornare alla sua attività di ricercatrice in Fisica.

Dalle poche parole di Barbara e dalla replica di Maria Luciana (che la conosce profondamente e che è stata sua compagna di viaggio in questo percorso) emerge tutta l’amarezza per essersi trovata a dover rinunciare alla sua professione, perché questa non è quella che dovrebbe essere, perché la sua trasposizione reale tanto si discosta dai suoi principi fondamentali.

E’ senza dubbio una vicenda che si discosta dal vissuto quotidiano di ciascuno di noi, ma che enfatizza quanto ciascuno di noi vive quotidianamente, mettendone e nudo le criticità.

Cogliamo questo racconto di vita come uno spunto per riflettere e continuare a farlo sul senso dell’infermieristica e delle nostre battaglie per la sua valorizzazione, affinchè non ci siano altre Barbara costrette ad abbandonare la professione per non cadere in conflitto con se stesse e con i propri valori.

 

Il 29/07/2015 11:59

Ciao  mia cara, 

Sto per chiudere una fase della mia vita  in cui tu sei stata attivamente presente e  influente, per questo devi essere la prima a saperlo.  Darò le dimissioni in tempo per essere fuori dal lavoro prima di dicembre 2015. 

Non è per niente facile ma non ho alternativa. 

Sono triste di lasciare anzitempo il lavoro più bello del mondo, ma non lo credo più, quindi è ancora più doloroso restare. 

Un abbraccio Barbara

 

Ciao carissima,

come ho già avuto modo di dirti, sono felice per te della decisione che hai  maturato e, ancora di più, del coraggio che stai dimostrando per realizzarla... Non è da tutti... Si, sono d'accordo con te, il nostro è il lavoro più bello del mondo. Ho consumato quasi la metà della mia vita guardando  negli occhi tanti drammi umani; sofferenze, speranze, e “rinascite” di cui mi sono fatta carico con forza e passione; molte volte, troppe, andando controcorrente rispetto alla comune prassi del disimpegno emotivo ed esistenziale, e superando con il rigore della coerenza e del mio libero arbitrio, giudizi, pregiudizi, compromessi, sudditanza e bisogni narcisistici. Ma, aimè, nel nostro ambiente,  il cui livello culturale è purtroppo molto scarso, poichè troppo spesso limitato all’espressione delle sole competenze  tecniche  e manageriali, e, dunque, espressione di  una coscienza intellettuale impoverita, l’integrità morale delle persone e l’esercizio del  loro  libero arbitrio, quasi sempre, con poche eccezioni, costituisce il vero cocente problema.

La questione è che gli organi di rappresentanza professionale, la nostra dirigenza, e oramai quasi tutta la rappresentanza sindacale storica, si comportano rispetto alla loro “base”  proprio come un sistema di casta. Un sistema che ha reciso ogni legame di appartenenza con le proprie radici vitali, i cui valori egualitari, solidali, e di  sostegno e protezione  dei diritti e dei bisogni degli infermieri, lo hanno legittimato  ad esistere. Lo stesso sistema, tanto per capirci, che la classe politica italiana esprime in questo momento storico nella società civile. La nostra professione è ormai scivolata inesorabilmente verso l'ausiliarità  che ricorda quella di "fin de siecle". Oggi, però, non più soltanto“ausiliaria” dell’aristocrazia medica, ma “vassallo” anche di questa casta professionale, il cui sviluppo sociale in questi ultimi decenni, ha portato alla luce retrive aspirazioni legate al proprio status sociale, all’esercizio del potere, e all’arroganza di un “patriziato” professionale. Questa involuzione sociale della nostra dirigenza verso forme di feudi corporativi, ha prodotto quella marginalizzazione sociale, culturale, professionale, e contrattuale della base infermieristica, che, nell'organizzazione del lavoro, trasforma gli infermieri in "sudditi e manovali della sanità", piuttosto che produttori di valore sociale. Con tutti quei danni e quei soprusi che conosciamo bene sulla nostra pelle: demansionamento, riduzione  degli spazi di autonomia, dei diritti e dell'espressione della creatività professionale, mancato rispetto delle normative contrattuali (riposi che saltano per compensare i vuoti di organico), aumento del carico assistenziale, ecc.,

Se il mio budget mensile me lo consentisse, farei la  stessa cosa che stai facendo tu Barbara... con la differenza che non ne soffrirei affatto. Quando gli spazi della nostra libertà e cultura professionale si riducono e, con essi, anche la dignità, e però le condizioni economiche ci consentono un'altrettanto vita dignitosa, allora bisogna prenderne atto e attivarsi con coraggio per la soluzione migliore. La tua, appunto, in questo momento, è la migliore per te.

La nostra cultura professionale, compresa quella medica, e, più in generale, quella scientifica, è rimasta purtroppo radicata ad un paradigma culturale patriarcale, il quale, impedendo come una corrazza la contaminazione di nuove culture e una nuova filosofia dell’approccio al “care” e alla prevenzione della salute, non riesce ad andare oltre l’impianto positivista della scienza, che in questo momento esprime il livello più arretrato della coscienza intellettuale della società italiana. Un atteggiamento culturale limitato e arretrato,che esprime una visione dell'organizzazione del lavoro basata sull’esercizio del potere e della gerarchia, di cui le nostre dirigenze infermieristiche costituiscono la cinghia di trasmissione, sull’uso diffuso dei privilegi, della diffamazione e del mobbing come strategia di gestione e di controllo del potere a tutti i livelli, e sull’applicazione di modelli relazionali autoritari, arroganti e svalutativi (patologici).

Bè, allora tanto vale fare per davvero i manovali...! Lo spessore culturale delle fabbriche probabilmente esprime lo stesso livello, ma in compenso saremmo almeno  riconosciuti come produttori di ricchezza sociale e  retribuiti  per quello che facciamo. Soprattutto potremmo fare esperienza di un clima di condivisone, solidarietà e sostegno che pone al centro la coerenza e l’integrità delle persone, e i loro bisogni. Invece, così rappresentiamo solo la “forza lavoro” di questa  arretrata aristocrazia infermieristica e medica che, impoverite di una prospettiva culturale legata al “sapere”, confondono  la tecnica per cultura, l’arroganza per il sapere, il corporativismo per solidarietà, lo scientismo per scienza, il moralismo per morale, il pensiero comune, la sudditanza, e la mediocrità per etica, e, per finire, l’attitudine al compromesso e la slealtà per integrità morale. Una forza lavoro a cui non è permesso esprimere la propria indipendenza di pensiero e la capacità di autonomia, la propria sensibilità e creatività, l’ intellettualità e il proprio livello di coscienza, ma la sola possibilità di adeguarsi al sistema.

Pena l’esclusione, o, peggio, la diffamazione.

Io, al tuo posto, guarderei questa precoce fuoriuscita come espressione di coerenza e dignità, e  ne sarei soddisfatta e orgogliosa. Hai saggiamente colto l'opportunità di poter rispondere ai tuoi bisogni più autentici esprimendo e valorizzando le tue capacità e il tuo grande talento, affrancandoti  da una collocazione sociale squalificante frustrante  e opprimente. Chapeau !!  

Un grande abbraccio. Maria Luciana