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Orario di lavoro. Introdurre regole più rigide rispetto al CCNL costituisce discriminazione nei confronti dei dipendenti

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 23/11/2019 vai ai commenti

Leggi e sentenze

Introdurre regole sul rispetto dell'orario di lavoro, più rigide rispetto al contratto collettivo nazionale senza peraltro fornirne le motivazioni, costituisce discriminazione indiretta nei confronti dei dipendenti che sono anche genitori.

E’ quanto stabilito dal deciso tribunale di Firenze sezione lavoro in una vertenza promossa dalla consigliera regionale di parità nei confronti dell'Ispettorato del lavoro del capoluogo toscano.

I fatti

A ricorrere in tribunale una consigliera regionale che aveva rilevava come le disposizioni aziendali in tema di orario di lavoro, erano peggiorative rispetto al CCNl, e nello specifico:

si imponeva l’obbligo di giustificazione scritta entro le 24,00 ore per ritardi dalle ore 9.16 alle ore 9,30, con la previsione che “in assenza di giustificazione scritta ovvero in caso di giustificazione non ritenuta congruente, l’ingresso in ufficio oltre le ore 9,15 costituisce violazione del dovere di rispetto dell’orario di lavoro e, in considerazione anche della eventuale reiterazione, dà luogo a responsabilità disciplinare” (viceversa, l’orario di lavoro nazionale I.N.L. prevede solo che “Il ritardo – tra le ore 9.16 e le ore 9.30, n.d.r. – sull’orario di ingresso al lavoro comporta l’obbligo del recupero entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il ritardo, come stabilito dall’art. 24 del citato CCNL”, a norma del quale “In caso di mancato recupero, si opera la proporzionale decurtazione della retribuzione e del trattamento economico accessorio, come determinato dall’ art. 69.

 

Imponevano che le entrate successive alle ore 9,30 dovevano essere considerate “permessi brevi non retribuiti”, ma, diversamente da quanto prevede l’art. 34 C.C.N.L. e diversamente anche da quanto disposto dall’orario nazionale di lavoro I.N.L

stabilivano che “i permessi brevi non retribuiti di cui all’art. 34 CCNL 2016-2018 possono essere concessi dal Responsabile dell’Area (dal Dirigente per i responsabili di Area), salvo ragioni di ufficio, previa istanza inviata con congruo anticipo, onde consentire alla struttura di adottare le misure organizzative necessarie, salvo situazioni particolari, da indicare nella richiesta e rimesse alla valutazione del Responsabile dell’Area ovvero del Dirigente.

 

Imponevano che la fruizione del riposo compensativo da Banca delle ore (v. art. 27 C.C.N.L. Funzioni Centrali) dovesse conciliarsi con l’esigenza di spesa delle somme accreditate per il lavoro straordinario, laddove, invece, la contrattazione collettiva nazionale prevede solo che la contrattazione integrativa nazionale o di sede unica stabilisca il limite individuale annuo delle ore che possono confluire nella banca delle ore, ai sensi dell’art. 27, comma 2; e che l’utilizzo come riposi compensativi, a domanda del dipendente, avvenisse compatibilmente con le esigenze di servizio, anche con riferimento ai tempi, alla durata ed al numero dei lavoratori, contemporaneamente ammessi alla fruizione

 

nulla prevedono in ordine alla flessibilità c.d. “ulteriore” in favore dei dipendenti che si trovino in particolari situazioni personali, sociali e familiari (fra i quali sono espressamente previsti coloro che si trovino in situazione di necessità connesse alla frequenza dei propri figli di asili nido, scuole materne e scuole primarie) di cui all’art. 26, comma 4 C.C.N.L. Funzioni centrali, limitandosi, infatti, a stabilire che “L’ingresso in servizio in orario successivo alle ore 9,30 oltre a costituire ritardo, viene considerato permesso breve e l’orario da recuperare viene computato dalle ore 8,00.

 

 

Il giudice non ha mancato di accertare che tali ordini avrebbero potuto determinare, nel loro complesso, una potenziale discriminazione indiretta in danno dei genitori lavoratori (soggetti portatori del fattore di rischio costituito dalla maternità o paternità) e, in particolare, delle lavoratrici madri (soggetti che cumulano fattore di rischio del sesso femminile con il fattore di rischio costituito dalla maternità) senza che il datore di lavoro pubblico avesse comprovato la sussistenza di una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari.

Il giudice, con una articolata sentenza-ordinanza si è riportato non solo alle leggi nazionali, ma anche alla giurisprudenza comunitaria che, a sua volta, è stata sempre chiara e coerente nel sancire la particolare tutela che spetta alle lavoratrici e ai padri lavoratori e ne ha concluso che gli ordini di servizio determinano una discriminazione indiretta.

Quest'ultima è tale in quanto essa risiede, non nel trattamento che è indistinto per i destinatari, ma negli effetti che costituiscono la sua conseguenza sul piano oggettivo. Essa è da ritenersi pertanto quale condotta non soggettiva che viene valutata per gli effetti lesivi nei confronti del lavoratore che appartiene a categorie tipizzate sulla base di un fattore di protezione.

Da qui l'ordine all'Ispettorato in questione dalla cessazione del comportamento pregiudizievole, tramite la rimozione delle discriminazioni accennate, provvedendo altresì a liquidare, in via provvisoria, alla consigliera ricorrente, a titolo risarcitorio del danno non patrimoniale, la somma di 2 mila euro, oltre accessori per legge. - (Tribunale di Firenze - sezione Lavoro, 22 ottobre 2019)