Prevenzione delle infezioni ospedaliere nelle terapie intensive: il nuovo protocollo europeo
Chi entra in una terapia intensiva si affida completamente alla medicina e alla tecnologia. Ma accanto alle cure avanzate e alle attrezzature sofisticate, c’è un pericolo silenzioso e spesso sottovalutato: le infezioni ospedaliere, che colpiscono proprio dove la vulnerabilità è massima. Per questo l’Europa ha deciso di fare ordine, aggiornando le regole del gioco. Il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC) ha appena pubblicato il nuovo protocollo per la sorveglianza delle infezioni nei reparti di terapia intensiva, con un obiettivo chiaro: ridurre i rischi, migliorare la qualità dell’assistenza e salvare vite.
Un protocollo per tutta Europa
Il nuovo documento, versione 2.3 del cosiddetto HAI-Net ICU protocol, non è solo un insieme di linee guida tecniche. È il tentativo, ambizioso e necessario, di uniformare la raccolta e l’analisi dei dati sulle infezioni nei reparti più delicati degli ospedali europei. L’idea è semplice: senza dati comparabili, non si può capire dove si sbaglia, né cosa funziona davvero. Dietro c’è un presupposto inquietante: un paziente in terapia intensiva ha fino a dieci volte più probabilità di contrarre un’infezione rispetto a un degente in altri reparti. Le cause? Da una parte la fragilità intrinseca dei pazienti, spesso immunodepressi o politraumatizzati; dall’altra l’uso massiccio di dispositivi invasivi, come ventilatori e cateteri, veri e propri veicoli di batteri se non gestiti con attenzione.
Cosa cambia e perché
Nel nuovo protocollo si legge un approccio pragmatico. Alcuni cambiamenti sembrano piccoli, ma hanno ricadute importanti. Per esempio, non sarà più richiesto di effettuare decontaminazioni orali nei pazienti intubati: una pratica fino a ieri considerata preventiva, ma che si è rivelata controproducente, aumentando addirittura la mortalità, secondo alcune meta-analisi. Oppure, la raccomandazione di tenere il capo del paziente sollevato anziché in posizione supina, per ridurre i rischi di polmonite, complicanza tanto comune quanto temibile in questi reparti.
Il linguaggio è tecnico, ma il messaggio è chiaro: monitorare non basta. Bisogna osservare come si lavora, quali antibiotici si usano, in che tempi si rivedono le terapie, se le mani vengono igienizzate a sufficienza, se i cateteri vengono mantenuti in condizioni adeguate. Sono stati introdotti nuovi antibiotici nella lista dei farmaci da sorvegliare, come ceftazidime-avibactam e cefiderocol, per stare al passo con le armi più recenti contro i batteri resistenti.
Due livelli di sorveglianza
Non tutti gli ospedali sono uguali, e il protocollo lo sa. Per questo prevede due livelli di sorveglianza: uno standard, più dettagliato, che analizza ogni paziente in modo approfondito, e uno light, che raccoglie dati aggregati a livello di reparto. L’idea è dare a tutti – anche agli ospedali con meno risorse – la possibilità di partecipare. In entrambi i casi, però, l’obiettivo è lo stesso: capire quanto pesano le infezioni, dove colpiscono, come si possono prevenire.
Dietro le cifre, la vita
Parliamo di migliaia di vite ogni anno. Secondo stime ECDC, almeno 1 paziente su 10 in ICU sviluppa un’infezione ospedaliera. Le più comuni? Polmoniti e batteriemie. E ogni infezione non è solo una complicanza: è un rischio in più, giorni in più in ospedale, costi in più per il sistema. Per questo la raccolta di dati non è un atto burocratico, ma uno strumento di cura. Sapere, ad esempio, quanti litri di disinfettante per le mani vengono usati ogni mille giornate-paziente non è un dettaglio. È un indicatore di attenzione, un possibile campanello d’allarme.
Una sfida di sistema
Il protocollo sarà operativo dal 2025, ma le ICU possono già aderire. Il software gratuito HelicsWin.Net permetterà di raccogliere e trasmettere i dati in modo uniforme. Ma l’adesione non è solo tecnica: è una scelta politica, organizzativa, culturale. Significa accettare la trasparenza, misurarsi con altri paesi, correggersi. Perché le infezioni ospedaliere non sono un destino, ma spesso una conseguenza evitabile. E se i pazienti in terapia intensiva sono i più fragili, è proprio lì che la sanità mostra il suo vero volto.