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Medici leader sugli infermieri? Replica: Anacronistico, offensivo, pericoloso

L’accordo per la medicina generale in Trentino, siglato il 4 agosto 2025, introduce maggiori tutele, strumenti diagnostici avanzati e nuove modalità di lavoro come a tempo parziale e da casa, con un significativo rafforzamento delle risorse destinate alla medicina generale provinciale.

Un’ottima notizia per tutti se non fosse che in questa sbornia di vantaggi decantati da Nicola Paoli, segretario provinciale del Sindacato Medici Italiani (SMI) Trentino, questi si sia lasciato andare al delirio di onnipotenza dichiarando che “i medici potranno, se vorranno, essere leader a comandare le equipe infermieristiche attuali nelle strutture come gli Ospedali di Comunità e strutture intermedie”.

Qualcosa che ha fatto uscire dai gangheri l’Ordine delle Professioni Infermieristiche della Provincia di Trento che con un comunicato stampa, risponde con fermezza. L’Ordine condanna queste affermazioni, definendole scorrette, offensive e anacronistiche, poiché ledono la dignità, l’autonomia e la responsabilità della professione infermieristica. Ribadisce che la collaborazione in sanità deve basarsi sul rispetto reciproco e sull’integrazione delle competenze, non su modelli gerarchici superati. Evidenzia che parlare di “comando” tra professioni è privo di fondamento giuridico, organizzativo e deontologico, e rischia di creare divisioni dannose per le cure ai cittadini. L’Ordine auspica un dialogo rispettoso e collaborativo, fondato sulle competenze, perchè "gli infermieri non si comandano, si rispettano".

Una presa di posizione ferma, in occasione dei 25 anni della legge 251 del 10 agosto del 2000 che rivendica come la norma abbia sancito il riconoscimento formale e giuridico dell’autonomia e della responsabilità professionale degli infermieri, mirando a un modello di collaborazione paritaria e rispettosa delle autonomie professionali. Una legge che ha mandato definitivamente al crematorio il vecchio modello del "mansionario", già sepolto nel 1994 che limitava gli infermieri a compiti esecutivi e ha stabilito che gli infermieri possono esercitare attività di prevenzione, cura e assistenza in modo autonomo, assumendo responsabilità dirette e gestionali. Norma che ha inoltre valorizzato la professione infermieristica, promuovendo la formazione continua e l’accesso a ruoli di dirigenza, rafforzandone la posizione nel servizio sanitario nazionale.

Una norma che appare essere sconosciuta ai medici che continuano a ragionare in modo disinvolto sulla rivendicazione di un primato di comando sugli infermieri per motivi che possiamo sintetizzare nel retaggio culturale e storico che vede ancora il medico come figura di comando naturale.

D’altronde nessuno insegna ai medici cosa sia un infermiere e cosa faccia, figuriamoci quale sia il suo agire professionale e in cosa si esplica la parità di ruolo. E poi, diciamocela tutta, non è che gli infermieri siano così abili a rivendicare questa parità posto che molti, come dico spesso, sono ancora oggi orfani del mansionario. Aggiungiamoci che all’università le cattedre del corso di laurea in infermieristica sono occupate da medici e che agli infermieri spettano poche ore di insegnamento complementare spesso non retribuite; se proseguiamo prendendo atto che la 251 è sostanzialmente inapplicata poiché non ha di fatto corrispondenza nella normativa contrattuale e ha lasciato sulla carta i propositi su riconoscimento sociale ed istituzionale, ecco che i medici della pasta del signor Paoli hanno gioco facile a fare rivendicazioni di questo genere, magari in perfetta buonafede perché convinti dal clima respirato tra facoltà e scuola di specializzazione, di essere ancora depositari di un ruolo di comando innato e di conseguenza ovvio. I reparti a direzione infermieristica, gli ospedali di comunità (dove avrebbero un ruolo di “consulenza”), rappresentano una evoluzione che per queste menti è difficile immaginare privi della loro illuminata direzione. Proprio quello che non capiscono, perché non sanno che la responsabilità dell’assistenza è in capo all’infermiere e non può che essere questi l’attore responsabile della sua organizzazione, in una dimensione dove il medico è chiamato a svolgere il suo ruolo di interprete clinico, diagnosta e prescrittore, che l’infermiere integra nel piano assistenziale al pari di tutti i bisogni che identifica necessari al paziente.

Forte pressione e stress sul lavoro ospedaliero, scarso riconoscimento economico e delle responsabilità, carichi elevati e burnout che generano un clima di tensione e frustrazione (stesse cause di malessere degli infermieri per molti euro in meno di stipendio tra l'altro), percezione di una progressiva erosione delle proprie competenze che generano resistenze e timori di perdita di ruolo da parte di medici abituati a modelli più gerarchici, sono solo alibi che non possono giustificare un tale livello di arretratezza culturale e mancanza di senso della realtà nel rivendicare un ruolo dominante, soprattutto in un clima di difficoltà lavorative e trasformazioni organizzative.

Non è la prima volta che si assiste a sgrammaticature di questo livello a dimostrazione che l’idea degli stati generali della sanità non è una proposta campata per aria, posto che c’è ancora un’evidente necessità di fare chiarezza sul ruolo di ognuno.

 

Andrea Tirotto

 

ph credit ladige.it