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TESTIMONIANZA. Il paziente, l'anello debole del sistema sanità

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 08/11/2014 vai ai commenti

NurSind dal territorioSardegna

Riceviamo e pubblichiamo

Il 18 settembre scorso ho avuto un incidente domestico, un mobile staccatosi dalla parete mi è crollato addosso. Ho avvertito un dolore terribile alla schiena e ho perso i sensi. Ero sola in casa, e, una volta ripreso conoscenza, ho chiamato il 118 e i soccorritori mi hanno condotto in ambulanza al servizio di pronto soccorso dell’Ospedale marino di Cagliari, specializzato in traumatologia e ortopedia. L’addetto al triage mi ha assegnato il codice verde, sostenendo una prediagnosi di strappo muscolare. Non ero in grado di reggermi in piedi, né di stare seduta, per cui ho atteso per sei ore, su una barella, in preda a forti dolori, il mio turno.

 

Ho chiesto ripetutamente a un infermiere, che mi passava accanto, di essere visitata e di poter essere accompagnata al bagno. Non sono stata degnata neanche di una risposta. In lacrime, sono scesa dalla barella, ho dichiarato alla caposala che sarei ricorsa ai carabinieri e mi sono avviata, piegata dal dolore, verso l’uscita. Non riuscivo a reggermi. A quel punto la caposala mi ha caricato su una sedia a rotelle e mi ha condotto in ambulatorio. Il medico mi ha chiesto, senza sollevare lo sguardo , quale fosse il mio problema.
Ho raccontato dell’incidente, poi ho chiesto al medico e agli infermieri presenti, se quella modalità di accoglienza dei pazienti fosse il loro standard o potessi ritenerla un trattamento riservato solo a me. Ho fatto notare la loro scarsa educazione, l’atteggiamento di scortesia e disprezzo verso la persona in generale e verso il malato. Io faccio l’insegnante da tanti anni e non mi è mai capitato di maltrattare in quel modo alunni e genitori. Il medico mi ha chiesto scusa, ma ha dichiarato: “Arriva tanta gente al pronto soccorso, talvolta per problemi che può risolvere il medico di famiglia. Lei è arrivata col 118, ma ha un codice verde e la lista d’attesa è lunga”.
Comunque la mia protesta ha perlomeno prodotto un repentino cambiamento nei loro comportamenti; sono diventati, tutti, straordinariamente gentili. Sono stata sottoposta ad una RX della colonna e poi dimessa con la diagnosi di dolore muscolare senza traumi. Il medico voleva prescrivermi tre giorni di riposo, ma ho rifiutato, felice di non aver riportato traumi della colonna. Mi hanno somministrato un analgesico intramuscolo e sono uscita.

 

Mentre attendevo da circa un quarto d’ora che un’amica venisse a prendermi, all’esterno del pronto soccorso, mia figlia mi chiama da casa. “Mamma dove sei? Ha chiamato un medico dal pronto soccorso dice che devi tornare lì immediatamente, ha trovato qualcosa nell’RX.

Torno dal medico che mi spiega di essersi insospettito perché mi vedeva troppo sofferente, e quasi incapace di reggermi, quindi di aver controllato per bene la radiografia e di aver trovato la frattura della D8. Ero sconcertata. Mi inviano subito alla TAC. Confermata la frattura.
Ho potuto notare in tutto il personale una grande preoccupazione.
Ora non spetta a me giudicare la competenza del personale sanitario e mi guardo bene dal solo pensiero di scambiare un errore per incompetenza, siamo esseri umani e perciò fallibili. L’errore è stato rimediato sollecitamente.

 

Ma il rapporto con le persone che talvolta possono anche risultare sgradevoli, o che non sanno comunicare adeguatamente, o che per motivi diversi, quali paura, ansia, difficoltà all’accesso ad altri servizi sanitari, che comunque soffrono oggettivamente e si rivolgono al servizio di pronto soccorso, non deve essere scambiato mai per fastidio o incremento del carico di lavoro.

 

Tutta la fatica, lo stress, il senso di oppressione, del personale sanitario derivano a mio avviso da una cattiva organizzazione del lavoro, da un eccessiva richiesta di prestazioni, dalla frustrazione del mancato riconoscimento dell’impegno, della professionalità, dalla difficoltà di superare le gravi carenze del sistema sanitario quotidianamente, ma non possono essere scaricate sulla parte più debole del sistema, il malato. Devono essere identificate e riconosciute le cause e i responsabili. Dovrebbe essere chiaro l’obiettivo delle proprie rivendicazioni o rimostranze.

 

Allora noi pazienti potremmo essere delle persone con un’anima, un corpo, una testa e potremmo essere preziosi collaboratori e alleati.

 

Antonella Piras