Stress, sonno e salute mentale: perché troppe infermieri non riescono più a 'staccare'
Uno studio trasversale condotto in un ospedale del sud di Taiwan fotografa un quadro preoccupante: stress lavorativo, disturbi del sonno e sintomi di ansia e depressione sono spesso intrecciati. Strategie di coping e supporto sociale possono attenuare parte del danno, ma non sempre allo stesso modo.
Notti spezzate, turni che cambiano di continuo, reparti ad alta intensità emotiva, responsabilità cliniche e pressione organizzativa. Per molti infermieri lo stress non è un picco occasionale: è una condizione di fondo che si trascina dal turno alla vita privata. E quando la tensione diventa cronica, le conseguenze non si fermano alla stanchezza: toccano il sonno, l’umore, la lucidità decisionale e, in ultima analisi, anche la qualità dell’assistenza.
È in questa cornice che si inserisce lo studio “Investigating the Relationships Among Nurses' Stress, Sleep Quality, and Mental Health, and the Mediating Role of Coping Strategies and Social Support: A Cross-Sectional Study”, firmato da Hui-Ling Lai, Chun-I Chen, Guan-Hsiung Liaw, Chu-Yun Lu, Liu-Chun Lu e Chiung-Yu Huang. Un’indagine che prova a ricostruire, con un approccio statistico robusto, come stress percepito, qualità del sonno e salute mentale si influenzino a vicenda, e quanto contino due “fattori cuscinetto”: le strategie di coping e il supporto sociale.
Il contesto: una professione in affanno (e un mondo a corto di infermieri)
La ricerca parte da un dato di scenario ormai noto: la carenza globale di personale infermieristico. Il State of the World’s Nursing 2020 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità evidenzia un deficit di milioni di infermieri, alimentato da invecchiamento della forza lavoro, disuguaglianze territoriali, limiti formativi, condizioni di lavoro difficili e migrazioni professionali. La pandemia ha aggravato ulteriormente le criticità, rendendo più evidente un circolo vizioso: condizioni peggiori portano a peggior salute mentale, burnout, abbandoni e quindi carenze ancora più marcate.
In questa dinamica, lo stress non è solo un problema “individuale”. È un fattore sistemico che incide sulla tenuta del servizio sanitario.
Obiettivo dello studio: capire i legami (e chi può fare da “filtro”)
Gli autori sottolineano un punto: di studi sullo stress infermieristico ce ne sono molti, ma spesso le variabili vengono analizzate “a pezzi”. Qui, invece, l’obiettivo è più ambizioso:
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Verificare le relazioni tra stress, qualità del sonno e salute mentale (in particolare ansia e sintomi depressivi).
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Capire se coping e supporto sociale mediano (cioè spiegano in parte) l’impatto dello stress su ansia e depressione, e se hanno un ruolo anche sul sonno.
Per farlo, il team usa un modello di Structural Equation Modeling (SEM): una tecnica che permette di stimare contemporaneamente effetti diretti e indiretti tra più variabili.
Metodo: chi è stato coinvolto e cosa è stato misurato
Lo studio è trasversale (cross-sectional): fotografa una situazione in un periodo definito, senza seguire i partecipanti nel tempo.
Campione e raccolta dati
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202 infermieri reclutati con campionamento di convenienza in un ospedale del sud di Taiwan.
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Requisiti: ≥ 20 anni e ≥ 3 mesi di esperienza infermieristica.
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Periodo: agosto 2021 – febbraio 2022.
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Questionari strutturati, partecipazione volontaria, consenso informato, approvazione del comitato etico.
Strumenti utilizzati
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Stress percepito: Perceived Stress Scale (PSS), 14 item, punteggio 0–56 (più alto = più stress).
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Qualità del sonno: Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI), punteggio 0–21 (più alto = sonno peggiore). Soglia: >5 = disturbi del sonno.
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Salute mentale: Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) con due sottoscale (ansia e depressione), cutoff ≥7.
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Coping: versione modificata della Ways of Coping Scale (18 item), con tre stili:
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active coping (affrontamento attivo),
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minimizing coping (ridimensionamento/distanziamento),
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escape coping (evitamento/fuga).
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Supporto sociale: Social Support Inventory modificato (19 item), con supporto emotivo, valutativo, informativo e tangibile.
I risultati che colpiscono: numeri alti, soprattutto sul sonno
Il primo dato, già di per sé, è un campanello d’allarme:
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85,6% dei partecipanti presenta disturbi del sonno (PSQI > 5).
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60,9% mostra sintomi depressivi sopra soglia.
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31,2% mostra ansia sopra soglia.
Il campione è composto quasi interamente da donne (99,5%), con età media 34,7 anni, e una distribuzione tra reparti che include ambulatori, medicina generale, sala operatoria, pronto soccorso e terapia intensiva.
Che tipo di sonno fanno?
Molti riferiscono:
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latenza di addormentamento spesso tra 16 e 30 minuti,
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durata del sonno per lo più tra 5 e 7 ore,
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efficienza del sonno dichiarata spesso ≥ 75%,
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uso di farmaci per dormire generalmente basso,
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ma con una quota rilevante di disturbi e frammentazione.
Il dato interessante è questo: molti “percepiscono” il sonno come buono, ma il punteggio complessivo dice il contrario. È una discrepanza tipica quando ci si abitua a dormire male come se fosse la normalità.
Stress e salute mentale: la relazione è netta
Sul piano delle correlazioni e del modello SEM, lo schema che emerge è coerente:
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Più stress → peggiore qualità del sonno
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Più stress → più ansia
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Più stress → più sintomi depressivi
Nel modello finale, lo stress ha un effetto diretto significativo su:
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sonno (β = 0,23),
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ansia (β = 0,72),
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depressione (β = 0,42).
Tradotto: quando lo stress cresce, crescono in modo marcato soprattutto i sintomi d’ansia, e in modo consistente anche quelli depressivi; il sonno peggiora.
Il ruolo del coping: quando le strategie contano davvero
Qui arriva uno dei punti centrali dello studio. Le strategie di coping mediano (almeno in parte) la relazione tra stress e malessere psicologico.
In pratica:
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lo stress aumenta ansia e depressione,
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ma se entrano in gioco strategie di coping efficaci, l’effetto “si attenua”.
L’active coping (affrontare il problema, pianificare, cercare soluzioni) risulta associato a:
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meno ansia,
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meno depressione,
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meno stress percepito.
Questo suggerisce un messaggio operativo: non basta dire “gestisci lo stress”. Serve insegnare e sostenere modalità concrete di gestione, perché possono ridurre l’impatto psicologico anche quando le condizioni di lavoro restano dure.
Supporto sociale: utile contro l’ansia, meno chiaro sulla depressione
Il supporto sociale risulta correlato in modo negativo con ansia, depressione e stress: più supporto, meno sintomi.
Ma nel modello strutturale succede una cosa importante:
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il supporto sociale media lo stress sull’ansia (quindi può “proteggere”),
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non media in modo significativo lo stress sulla depressione.
È un risultato che va letto con prudenza, ma è plausibile: l’ansia spesso risponde meglio a fattori di contenimento immediati (sentirsi supportati, avere qualcuno con cui parlare, ricevere aiuto pratico). La depressione, invece, può essere più legata a fattori persistenti, accumulativi e organizzativi, e quindi meno “tamponabile” solo con il supporto relazionale, se le condizioni di base non cambiano.
I reparti contano: pronto soccorso e terapia intensiva in cima ai rischi
Lo studio trova differenze significative tra unità operative, soprattutto sul sonno.
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ED (pronto soccorso) e ICU (terapia intensiva): più disturbi del sonno rispetto ad altri reparti.
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Sala operatoria (OR): sonno peggiore rispetto ad ambulatori e reparti medici generali.
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Area amministrativa: livelli più bassi di ansia e stress rispetto alle aree di assistenza diretta, anche se alcune differenze non raggiungono sempre significatività statistica.
Inoltre:
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infermieri single riportano più disturbi del sonno rispetto ai coniugati,
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reddito più basso (≤ 40.000 NTD) è associato a più stress e più sintomi depressivi.
Che cosa significa davvero (e cosa dovrebbero fare i manager)
Gli autori non si limitano a “descrivere il problema”: provano a trasformarlo in indicazioni gestionali.
Le implicazioni principali:
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Nei reparti ad alta intensità (OR/ED/ICU) servono interventi mirati, non generici.
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Occorre integrare programmi di coping attivo e supporto psicosociale nelle politiche di reparto, non lasciarli alla buona volontà individuale.
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Tra le strategie suggerite (anche richiamando la letteratura): standard di carico di lavoro, turnistica più flessibile, personale di supporto, semplificazione di procedure e reporting, sostegno da parte di coordinatori e colleghi, formazione su tecniche di gestione dello stress (rilassamento, mindfulness, educazione psicosociale).
Il punto politico-organizzativo è semplice: se si chiede resilienza, bisogna costruire le condizioni perché sia possibile.
Limiti: perché non è una “sentenza definitiva”
Gli autori riconoscono limiti importanti:
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essendo uno studio trasversale, non dimostra causalità (non possiamo dire “lo stress causa X” con certezza, solo che è associato a X);
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dati auto-riferiti, senza validazione esterna;
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campione da un solo ospedale, quindi generalizzabilità limitata;
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servono studi longitudinali e multicentrici.
Detto questo, i numeri e la coerenza del modello SEM danno alla fotografia un peso non trascurabile.
Un intreccio che non si può più ignorare
Questo studio mette in fila, con chiarezza, un triangolo critico: stress → sonno peggiore → salute mentale più fragile, con ansia e sintomi depressivi molto diffusi. E aggiunge un elemento pratico: coping e supporto sociale non sono “accessori”, ma leve che possono ridurre parte dell’impatto dello stress, soprattutto sull’ansia.
Per chi gestisce reparti e organizzazioni sanitarie, il messaggio è operativo: se l’obiettivo è trattenere personale, ridurre errori, migliorare qualità dell’assistenza e prevenire burnout, allora bisogna intervenire sia sulle condizioni di lavoro sia sulle risorse psicologiche e relazionali disponibili nel quotidiano.
Lai, H, Chen, C, Liaw, G, Lu, C, Lu, L & Huang, C. (2025). Investigating the Relationships Among Nurses' Stress, Sleep Quality, and Mental Health, and the Mediating Role of Coping Strategies and Social Support: A Cross-Sectional Study. AJN, American Journal of Nursing, 125, e1-e8. https://doi.org/10.1097/AJN.0000000000000198
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