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Tutti quei professionisti che lavorano in silenzio, nel silenzio...

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 05/02/2016 vai ai commenti

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Non che sia un fatto assolutamente nuovo, anzi. Ma la capacità di cogliere in poche righe quello che tutti noi sappiamo e che non ammettiamo se non di sfuggita, mi fa riprendere e pubblicare di seguito quello che su Vanityfair.it (Cicca) scrive Massimo Gramellini, in risposta a una lettrice, Simona.

L'argomento? Il silenzio in cui e con cui migliaia di infermieri e medici lavorano ogni giorno, dedicando professionalità e umanità ai loro pazienti, travolto dal chiasso e dalla rumorosità di pochi "casi" di malasanità.

Quei pochi casi che però le cronache fanno rimbalzare e ingigantire mediaticamente, fin quasi a indurre alla falsa convinzione che siano la rappresentazione della realtà maggioritaria, non già di una piccola, reale certo, ma piccola minoranza delle situazioni che ogni giorno si dispiegano nelle corsie italiane.

E allora l'attesa, il disappunto per l'attesa che si protrae oltre quanto si vorrebbe e si ritiene (in base a cosa poi?) giusto, lascia spazio per un attimo all'osservazione, e il sipario si apre sul vero scenario del sistema sanitario.

Migliaia di infermieri e medici che si prodigano con mille fatiche per rendere ai pazienti ogni genere di conforto (fisico, sanitario, morale, psicologico) facendo salti mortali fra strutture inadeguate, risorse insufficienti, mancanza di personale, orari senza orologio. Un esercito di professionisti che dedica ogni risorsa che ha ai propri pazienti. Pazienti che ne percepiscono il valore, il significato e che li apprezzano. Ma questo è un processo diffuso e silente, ben lontano dal chiasso dei pochi casi di malasanità con cui si fa presto a riempire le pagine, che rappresentano certamente episodi e situazioni deprecabili e da condannare, ma che non sono certo lo specchio di quanto esiste intorno a noi.

Grazie a Simona e grazie a Gramellini per le testimonianze che hanno portato in questo senso.

  

Mia madre al pronto soccorso, e quel bacio

Dopo 11 ore nel pronto soccorso dell’ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria, ho creduto ci avessero dimenticato. Poi ho iniziato a osservare i volti dei dottori e infermieri che di ora in ora cambiavano fisionomia per la stanchezza, gli occhi con il panico di chi deve ogni minuto decidere chi far passare prima, le voci frustrate che al telefono imploravano i reparti per trovare un letto ai più gravi. Al cambio turno la dottoressa Simo ci fa entrare, sorride e, mentre cerca di fermare l’emorragia alla mia mamma, le posa un bacio sulla guancia. C’è tutto in quel bacio: la stanchezza, le scuse per averci fatto aspettare, la gioia per essere riuscita a vedere negli esami, tra centinaia di valori, uno che nessuno aveva notato, e che spiegava quello che stava accadendo. Ho sentito dottoresse promettere ai figli che sarebbero andate a casa di lì a poco, ma continuare a lavorare oltre il turno, a combattere con strutture inadeguate, in cambio di un «grazie» dai pazienti, se va bene; di insulti, se va male. Di queste persone e delle loro battaglie quotidiane non importa a nessuno: ne scriva lei. —SIMONA

 

Risponde Massimo Gramellini

Ne ha già scritto benissimo lei, Simona. Posso solo aggiungere un’esperienza personale. All’inizio della mia carriera di postino del cuore, nella primavera del 1998, ricevevo non più di due lettere alla settimana. Da giornalista abituato a bazzicare gli spogliatoi del calcio e poi quelli non meno scafati della politica, mi ero forgiato in ambienti talmente cinici che nessuno si fidava ad aprirmi il suo cuore. A un signore che mi confessava la sua disperazione sentimentale, dichiarandosi pronto a buttarsi dalla finestra, risposi che gli auguravo di abitare al primo piano. Da quel momento di lettere non ne arrivarono proprio più. Stavo per chiudere la posta per mancanza di rifornimenti quando la lunga malattia di mio padre imboccò l’ultima curva. Il giorno della sua morte coincise con quello di consegna della rubrica. Non riuscendo a scrivere d’altro, raccontai la via crucis che tutti i parenti dei malati terminali conoscono: quell’altalena di stati d’animo per cui un giorno lo vedi soffrire e speri che finisca tutto al più presto e il giorno dopo ti sembra stia meglio e allora ti auguri che vada avanti per sempre.

Ero rimasto colpito dal comportamento dei giovani oncologi dell’ospedale Molinette di Torino. Non avevano mai smesso di restargli accanto. Persino quando lui, mosso dalla disperazione, li aveva «traditi» per la cura Di Bella. Negli ultimi giorni si avvicendavano al suo capezzale come figli. Quando in un momento di lucidità mio padre chiese a uno di loro se sarebbe riuscito a fargli un tagliando fino al 2000, il medico gli prese le mani tra le sue: non lo so, disse, ma le prometto che ce la metteremo tutta per non farla soffrire. Fu di parola. Quando si trattò di prepararlo per la camera ardente, quel dottore volle a tutti i costi fargli il nodo alla cravatta. E, mentre glielo aggiustava, il suo barbone biondo si inumidì di lacrime. Nel raccontare questa storia, fui travolto dalle risposte dei lettori, che da allora per fortuna non hanno più smesso.

Mi sono domandato tante volte perché i mattoni del giornalismo debbano essere solo le cattive notizie. Eppure è ciò che ci viene insegnato: che la stampa è la fabbrica della denuncia, del lamento e dell’indignazione. Nessuno si affaccia sul pianerottolo per guardare due innamorati che si baciano. Lo fa solo se li vede litigare.

Però così abbiamo una realtà percepita assai diversa da quella reale. A furia di parlare esclusivamente dell’unica nipotina che strangola la nonna, diamo l’impressione a chi ci legge che sia in corso un’invasione di nipotine che strangolano le nonne. Che la vita sia tutta un proliferare di ladri, assassini, razzisti, terroristi, corrotti e torturatori. Che i medici, per venire al tema della sua lettera, siano avidi e aridi burocrati che considerano i pazienti delle malattie anziché delle persone.

Di individui simili ne esistono, purtroppo, e tutti li abbiamo conosciuti e talvolta denunciati. Ma sono la minoranza rumorosa. Se il mondo non è ancora collassato e forse non collasserà mai, è perché esiste e resiste una maggioranza silenziosa che pur tra tanti ostacoli, cadute e compromessi si sforza di continuare a fare il proprio mestiere con amore. Di avere cura di sé e degli altri come può, meglio che può. Cercando – citerò uno dei miei filosofi di riferimento: Vasco Rossi – di dare un senso anche a ciò «che un senso non ce l’ha».