Pistoia. "Il corpo nella malattia": professionisti infermieri nella relazione, oltre la formazione...
di Rosa Scelta
Partecipare a corsi di formazione e formarsi, per un infermiere nel particolare ma per operatore in sanità in generale, vuol dire anche mettersi in discussione più che come professionista, proprio come persona. Questo è quello che accade se si decide d'iscriversi ad un corso che ha come titolo "Il corpo nella malattia".
Cominci conoscendo per nome gli altri partecipanti e il loro ambito lavorativo e finisci conoscendo reazioni, peculiarità, caratteristiche, modi di fare del tuo proprio essere che non sapevi di avere o con cui non avevi mai minimamente creduto di dover farci i conti. Arrivi a dover prendere atto di aspetti della tua propria personalità che mai avresti pensato di possedere nè come bagaglio del professionista ne come persona.
Ti trovi a dover prendere atto che "IO infermiere" che ha scelto questa professione e che è solito stare dalla parte di chi "abbraccia", ha serie difficoltà a farsi abbracciare. Noi professionisti, che quotidianamente chiediamo ai pazienti di affidarsi a noi dal momento della presa in carico, siamo quelli che avrebbero difficoltà ad affidarsi a loro volta.
La maggioranza di noi sceglie per puro caso di fare l'infermiere, ma dal momento che "rimaniamo" lo scegliamo su base volontaria. Siamo professionisti che consapevolmente o no, ci cibiamo di pane e relazione.
Veniamo in contatto continuamente con tante persone. Siamo sempre costretti dai "tempi", la nostra professione è contingentata dai tempi, ma finchè "io infermiere" mi pongo la domanda a fine di ogni mio turno o di ogni mia prestazione: "avrò dato abbastanza?" "riesco a restituire all'altro, a colui a cui chiedo di affidarsi a me, la dignità, l'idea di essere persona?" e forse è proprio lì l'essenza di ciò che facciamo.
Il più delle volte non siamo consapevoli che la pelle è un involucro psichico, un confine identitario, un confine psicologico. Quando si entra in contatto con il malato, quando si entra in contatto con le sue ferite, si entra in contatto anche con le sue ferite identitarie. Prendersi cura del corpo, significa prendersi carico dell'identità psicologica che quella pelle contiene...
Il paziente, è una persona che per la sua condizione di malattia ha perso qualcosa… ci troviamo di fronte a persone "mancanti" (vuoi per disabilità fisica, vuoi per prognosi infausta) e questa condizione di "mancanza" porta ad uno sbilanciamento nella relazione... Noi abbiamo scelto di essere là, il paziente è davanti a noi per un caso... il paziente ha diritto ad essere com'è, siamo noi che dobbiamo essere adeguati. Dobbiamo sapere per prima noi come siamo, anche perchè siamo l'unico metro di considerazione; i pazienti ci affidano dolore, speranza. Siamo in una relazione con un umano sofferente che ci delega costantemente la responsabilità di dover trovare un senso su ciò che la malattia è, in quanto tale. Il paziente resta l'oggetto della nostra scelta. Dobbiamo per primi apprezzare quello che facciamo e come lo facciamo; non dobbiamo svalutarci. Il paziente è come uno specchio: io infermiere devo imparare a far pace con il riflesso anche perchè è un caso che io sia dall'altro lato.
Il paziente è per noi uno sconosciuto, ma noi entriamo in contatto con la sua intimità perchè abbiamo a che fare con il suo corpo. Arrivo a condividere un carico emotivo con qualcuno con cui non ho intimità. E finchè mi adopero per Fare (che sia igiene, prelievo, rilevazione parametri, manovre assistenziali) riesco a padroneggiare la dimensione del silenzio e dell'essere due esseri sconosciuti l'uno all'altro. Come operatori, talvolta, si vive il paziente ed i suoi atteggiamenti come se egli, appositamente volesse interrompere il nostro servizio, la nostra routine assistenziale. Si corre spesso il rischio di far pagare al paziente i problemi di organizzazione o meglio di disorganizzazione in cui lavoriamo quotidianamente nelle nostre rispettive realtà. Per miglioraci da un punto di vista non solo tecnico della professione, dovremmo sempre ricordare che davanti a noi abbiamo una persona deformata dalla malattia nel corpo e nell'animo. Dovremmo imparare a farci carico anche dei carichi psicologici del paziente…
Veniamo da una formazione e lavoriamo in ambienti in cui la formazione è prettamente fondata su bisogni e equilibri rilevati su base organica e si misconoscono tutti i bisogni psicologici. Nelle nostre realtà lavorative si chiede a pazienti ed operatori di farvi fronte. Ricordiamoci che vale anche per noi operatori il principio che quando "ci rompiamo, ci rompiamo come persone non come operatori" (Burn-Out) e quando si perde la percezione del paziente, si arriva a disistimare la propria professione. Dobbiamo attuare l'autotutela come diritto.
A termine della giornata formativa, la maggioranza di noi partecipanti aveva fatto propria una massima: "ascolta sempre tutti perchè la parola che ti cambia la vita non sai mai da chi ti arriverà..."