Iscriviti alla newsletter

L'orario di lavoro nel comparto sanità. A che punto siamo?

Giuseppe Provinzanodi
Giuseppe Provinzano
Pubblicato il: 14/12/2016 vai ai commenti

La rivistaLombardia

Vito Antonucci Infermiere, esprime le sue considerazioni, attraverso la tesi sull'orario di lavoro, a  conclusione del corso di formazione sindacale. Come si è visto a distanza di 13 anni dall’approvazione del D.lgs n. 66 che in parte recepiva la  Direttiva comunitaria 93/104 del Consiglio Europeo del 23 novembre 1993, molti aspetti legati alla reale applicazione pongono dubbi e difficoltà.  

Sopratutto ci chiediamo se, possono essere altrettanto felici gli operatori sanitari ora che, almeno sulla carta, sono venute meno le deroghe all’art. 7 del D.Lgs n. 66/2003?

Sperimentazioni europee e realtà italiana

Nel maggio 2015 due articoli dell’Economist e dell’Indipendent associano lo stato di maggior felicità degli Olandesi rispetto al resto degli europei al fatto che, molti di essi in particolare le donne (76.6%), lavorano in regime di orario ridotto ed impiegano il tempo libero a fare sport (il 53% degli adulti si allena in media 4 volte a settimana), stare coi figli, godersi la bicicletta, insomma grazie al part-time riescono a conciliare salute e sorriso.

La legislazione vigente definisce orario di lavoro: “qualsiasi periodo in cui il lavoratore è al lavoro, a disposizione del suo datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” e periodo di riposo: qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro (art.2 D.Lgs. n. 66/2003).

Il testo recita “Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”.

La durata dell’orario ordinario è stabilita dai contratti collettivi nella misura di 36 ore settimanali per il personale del comparto e 38 per la dirigenza. Secondo la norma il riposo giornaliero deve essere fruito in modo “consecutivo” all’interno delle ventiquattro ore. Non sono quindi più contemplati quei turni che prevedono la mattina e la notte nello stesso giorno, le lunghe guardie, i turni che prevedono la sequenza “pomeriggio-mattina” senza le undici ore di distacco tra i due turni.

La norma di recepimento italiana prevede due sole eccezioni al principio del riposo giornaliero consecutivo nelle 24 ore (11 ore), le attività frazionate durante la giornata ed i regimi di reperibilità, rimane comunque il limite massimo giornaliero dedicato al lavoro delle 12,50 ore.

Per quanto  riguarda l’istituto della pronta disponibilità, istituto già presente nel D.P.R. 20 maggio 1987, n. 270 art. 18 (“è caratterizzato dall’immediata reperibilità del dipendente e dall’obbligo per lo stesso di raggiungere il presidio nel più breve tempo possibile dalla chiamata, secondo intese da definirsi in sede locale”), occorre distinguere tra “pronta disponibilità passiva” in cui il lavoratore si mette a diposizione per una eventuale chiamata da parte del datore di lavoro e tale attività non può essere equiparata alla reale prestazione lavorativa “pur essendo a disposizione del loro datore di lavoro, in quanto devono poter essere raggiungibili … possono gestire il loro tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi”. Diverso è il caso in cui segua la chiamata (pronta disponibilità attiva).

In questa situazione secondo  l’interpretazione del ministero del lavoro, la pronta disponibilità, sospenderebbe ma non interromperebbe il riposo giornaliero e quindi il riposo andrebbe calcolato in modo “frazionato” sommando le ore precedenti alla chiamata a quelle successive alla fine della prestazione lavorativa. Su questo punto non sono del tutto d’accordo i giuristi “in caso di chiamata l’attività prestata interrompe il periodo di pronta disponibilità e fa cominciare la prestazione lavorativa, al termine del quale scatta il periodo di riposo giornaliero”.

Altra questione collegata all’applicazione del D.Lgs 66/2003 è quella legata alla durata massima dell’orario di lavoro giornaliero. Molti ritengono che tale limite viene ricavato sottraendo le 11 ore di riposo alle 24 ossia 13 ore attenuate dai 10 minuti di riposo dopo sei ore (art.8 D.Lgs: n.66/2003) di lavoro continuativo (quindi 12.50). Da notare che non sono previste sanzioni per la mancata fruizione della pausa, la violazione ha quindi una rilevanza esclusivamente contrattuale, potendo il lavoratore eccepire l’inadempimento e rifiutarsi di lavorare ininterrottamente per oltre sei ore a norma dell’art.1460 Codice Civile.

Il R.D. 15 marzo 1923, n.692 fissava la durata massima del lavoro giornaliero in otto ore a cui si potevano aggiungere due ore di lavoro straordinario, quindi l’applicazione della normativa comunitaria rischia di essere peggiorativa. In realtà il diritto al riposo giornaliero e la durata massima della prestazione lavorativa giornaliera sono diritti distinti ed assolvono ad esigenze diverse.

IL CCNL del personale del Comparto Sanità stabilisce “una durata della prestazione non superiore alle dodici ore continuative a qualsiasi titolo prestate”. Inoltre per quanto riguarda in particolare gli operatori sanitari è lecito chiedersi se carichi di lavoro e turni che concorrono a determinare fatica e stress possano convivere con organizzazioni che si dedicano alla prevenzione dei rischi per non esporre i paziente a danni e tutelare sia loro che gli operatori.

Per quanto riguarda invece l’applicazione contrattuale, essa prevede la settimana lavorativa ordinaria su cinque o sei giorni: come si potrebbero quindi far convivere turni di 12 ore sia con la fruizione di alcuni istituti contrattuali (ferie, permessi, assenze per lutto, permessi ex legge 104), sia con la corresponsione di alcune indennità (presenza)? Eppure i turni di 12 ore spesso si prospettano come conseguenza dell’applicazione della norma comunitaria.

Una recente revisione della letteratura ha analizzato gli effetti e gli esiti sul personale infermieristico di turni di lavoro di 8 e 12 ore. I risultati degli studi mostrano che i turni di 12 ore, se pur in parte accettati dagli infermieri, rispetto a quelli di 8, tendono ad affaticare maggiormente il personale infermieristico, ciò si associa a più alti livelli di burnout a livello biologico, psicologico e sociale, a più frequenti errori terapeutici che possono portare ad una bassa qualità dell’assistenza, ad una riduzione delle prestazioni in termini qualitativi, soprattutto nelle ultime ore. I possibili errori si verificano nel passaggio di consegne, nella somministrazione di farmaci, nell’identificazione dei pazienti e portano ad un aumento dell’insoddisfazione dei pazienti e del rischio di insorgenza di ulcere da pressione dovute alla loro scarsa mobilizzazione.

Anche il clima organizzativo non risente certo di benefici anzi gli effetti emersi mostrano una scarsa collaborazione tra gli operatori, un minor lavoro di squadra ed un aumento della conflittualità tra colleghi. Altri possibili effetti sono l’aumento dei tassi di malattia e il peggioramento della qualità del sonno. Gli unici vantaggi dei turni di 12 ore sembrerebbero una riduzione dei costi per le aziende e una maggiore disponibilità di tempo libero per il personale, ma avendo più tempo libero, è emerso, viene richiamato a lavorare in altri reparti il doppio delle volte. E’ chiaro che l’introduzione di turni di 12 ore dovrebbe essere preceduta da una attenta valutazione del livello di complessità assistenziale del reparto e delle caratteristiche del personale, tenendo conto che nel nostro paese oltre il 50% degli infermieri attivi ha più di 50 anni.

A questo proposito meritano una citazione i risultati (pubblicati dall’Independent) di un progetto condotto in Svezia all’interno di una casa di riposo, che per un anno ha fatto lavorare i dipendenti su un turno di 6 ore, pur mantenendo la retribuzione di 8 ore. I ricercatori hanno concluso che le 68 infermiere coinvolte nel progetto si sono ammalate la metà di quanto accaduto alle loro colleghe che effettuavano orario tradizionale. Inoltre, sono risultate 2,8 volte meno inclini a prendersi giorni di permesso dal lavoro. In pratica lavorando meno ore sono riuscite a dare più continuità al loro rapporto con i pazienti ed hanno aumentato le attività svolte con gli anziani. Inoltre si sono dichiarate più felici delle loro colleghe e con maggiori energie da dedicare alle cure, che ne hanno beneficiato in qualità. Resta però da valutare la sostenibilità economica di un operazione di questo tipo.

Altra questione è quella che riguarda il cosiddetto “tempo-tuta” (in sanità tempo “cambio divisa” o “tempo di vestizione”), se[7] “tale operazione è diretta dal datore di lavoro che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, allora rientra nell’orario di lavoro e spetta la retribuzione” eppure nonostante sia riconosciuto universalmente dalla giurisprudenza, molte aziende non si sono ancora adoperate al fine di dare attuazione a tale precetto anche se sono numerose le vertenze legali vinte dagli operatori ricorrenti.

Come abbiamo visto a distanza di 13 anni dall’approvazione del D.lgs n. 66 che in parte recepiva la  Direttiva comunitaria 93/104 del Consiglio Europeo del 23 novembre 1993, molti aspetti legati alla reale applicazione pongono dubbi e difficoltà.         Recentemente due Euro parlamentari italiani hanno presentato alla commissione U.E. una interrogazione inerente proprio il recepimento della direttiva 93/104/CE (ora 2003/88/CE). Nella risposta il Commissario europeo per l’occupazione, gli affari sociali, le competenze e la mobilità del lavoro,  Marianne Thyssen scrive: “per quanto riguarda l’applicazione della direttiva nei singoli casi, la Commissione sottolinea che gli organismi nazionali di applicazione e organi giurisdizionali sono le autorità più idonee ad agire”. Purtroppo a questo punto si pone un altro quesito: chi controlla il controllore?

“La democrazia, come attualmente la conosciamo, è basata su un malinteso relativo alla realtà della natura umana e dell’organizzazione sociale. Fino  a quando le nebbie non si saranno alzate dalla nostra filosofia sociale e politica non potremo essere certi che la democrazia si muova nella direzione della libertà umana e dell’autonomia personale”.

Vito Antonucci Infermiere