Ictus e reinserimento professionale: solo due pazienti su tre tornano a lavoro entro l’anno
Solo due pazienti su tre colpiti da ictus e cerebrolesioni riescono a tornare a lavoro entro l’anno dall’episodio acuto: è il dato che emerge dal convegno “Ictus: fattori di rischio, prevenzione e riabilitazione”, organizzato dalla Fondazione Santa Lucia e dall’Inail che si è svolto nei giorni scorsi a Roma.
L’ictus registra in Italia 150.000 nuovi casi ogni anno e si avvicina ormai al milione il numero di persone che nel nostro Paese convivono con disabilità conseguenti a questa patologia. Le possibilità riabilitative e il conseguente reinserimento professionale sono, dunque, temi di grande rilevanza sociale.
I dati presentati durante il convegno sono il frutto di una revisione sistematica realizzata dalla Fondazione Santa Lucia che ha comparato i risultati di oltre 50 studi scientifici condotti in tutto il mondo negli ultimi dieci anni.
Il divario in termini di tempo relativi al reinserimento professionale, come è facilmente intuibile, è da ricondurre all’entità del danno cerebrale: il 20% di coloro che hanno subito un danno grave rientra al lavoro entro l’anno, mentre nel caso di un danno cerebrale di bassa o media entità’ si sale al 71,9%
Inoltre, secondo i risultati di uno studio condotto da Harvard Medical School e Yale Medical School, le possibilità di tornare al lavoro sono tre volte superiori per i professionisti con un livello di scolarizzazione più alto e un’attività lavorativa più intellettuale, rispetto a persone che svolgono professioni manuali. Relativamente, invece, ai dati sulle differenze di genere, da uno studio svolto nel 2016 in Corea del Sud (su 933 casi di ictus), emerge che sotto, la soglia dei 65 anni, riescono ad rientrare più velocemente a lavoro gli uomini (70,2% ) rispetto alle donne (48,3%).
Nella lettura di quest’ultimi dati, naturalmente, bisogna tenere conto delle variabili culturali e normative della nazione a cui si riferiscono.
In occasione della presentazione di questi dati, si è anche sottolineata l’importanza della prevenzione, non solo sugli stili di vita, ma anche in ambito lavorativo.
E’ un’organizzazione del lavoro attenta al benessere del lavoratore che può fare la differenza: in ambito lavorativo, infatti, è lo stress il fattore di rischio maggiore, uno stress inteso non in modo generico, ma nella sua accezione più strettamente medica. Le persone più esposte sono quelle che conducono un lavoro ad alta domanda e basso controllo, vale a direesposte a moltissime sollecitazioni senza la possibilità di decidere e selezionare quello che possono o non possono fare.
E’ evidente che alla luce di quest’ultimo dato, non solo i datori di lavoro, ma l’intera società, avrebbe in termini economici un ritorno maggiore, se investisse sul benessere organizzativo nei luoghi di lavoro. E’ ciò che i lavoratori percepiscono tutti i giorni sulla loro pelle, percezione che con questo studio viene avvalorata da dati scientifici ed oggettivi.
Fonte: Sanita24.Sole24ore
Ph credit: Inail