Iscriviti alla newsletter

Donne ribelli: le donne inadeguate. Storie di donne da manicomio (2a parte)

Vincenzo Rauccidi
Vincenzo Raucci
Pubblicato il: 05/09/2022 vai ai commenti

Contenuti Interprofessionali

di Gemma Maria Riboldi

(Leggi la prima parte, ovvero “Donne ribelli: le donne inadeguate del regime fascista. Storie di donne da manicomio (1a parte)” cliccando qui)

 

Il manicomio, nelle parole dello psichiatra rivoluzionario Franco Basaglia, era un luogo in cui il malato veniva “chiuso nello spazio angusto della sua individualità perduta”. Questo il luogo dove le donne continuarono ad essere internate anche dopo la caduta del regime fascista e durante il boom economico degli anni ’60. Ad aiutare la pratica la legge Giolitti-Bianchi del 1904, legge che stabiliva che “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa di alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per gli altri di pubblico scandalo”, rimasta anche dopo il dopoguerra.

“Di pubblico scandalo”, così ancora, sia durante il dopoguerra e con il boom economico che ne seguirà negli anni successivi, erano ancora considerate le donne che non riuscivano ad adeguarsi al ruolo imposto dalla società.

Tra gli anni ’50 e ’60 molte furono le donne chiuse nei manicomi le cui diagnosi erano spesso le stesse: ninfomani, eccitate, indemoniate o malinconiche.

Le ninfomani erano descritte come “donne prive del dominio del pudore, disponibili a qualsiasi rapporto sessuale e sprovviste di qualsiasi affettività”. Tra queste ci finivano semplicemente le donne più emancipate che cambiavano spesso fidanzati o che avevano figli da uomini diversi rovinando, così, l’immagine della famiglia. Talvolta erano donne in difficoltà a causa di traumi con crolli psichici legate all’uso del corpo che le rendeva facilmente additate, da una società giudicante, prostitute o donne di facili costumi.

Le malinconiche soffrivano di un “alterazione patologica del tono dell’umore, un’immotivata tristezza talvolta accompagnata da ansia”. Tra queste donne spesso si trovavano le donne affette depressioni post-partum o le donne vittime di abusi e maltrattamenti da parte dei mariti. Donne che nei manicomi ci venivano portate dai mariti stessi in quanto non più adatte al loro ruolo.

Le indemoniate erano invece definite come “irascibili, violente, con continui stati di agitazione”. Tra queste le donne che lottavano, si ribellavano a mariti o alla famiglia stessa perché un marito gli era imposto, tutto ciò in una società che profumava di cambiamento e di crescita in cui anche le donne iniziavano a vedere attraverso il lavoro la propria affermazione all’interno della società.

Poca importanza, anche nel ventennio antecedente alla legge 180, delle cause che scatenavano tali “sintomatologie” e poco importava che spesso fossero donne sole che scappavano di casa da mariti violenti o da abusi familiari e non solo.

Durante gli anni ’60 non pochi furono i ricoveri nei manicomi di donne giovani che non avevano semplicemente retto la pressione e lo stress del passaggio da una società rurale a quella cittadina. Donne che si trovavano sole e lontano dalla famiglia in un mondo nuovo, alla ricerca di lavoro in un ambiente che si discostava non poco dalla vita di campagna che avevano sempre fatto. Un mondo nuovo dove vivevano al limite della società che talvolta, a causa dell’ingenuità e della poca scolarizzazione, le rendevano vittime della stessa. Donne che in seguito ai loro ricoveri vissero con il peso della vergogna per non essere riuscite ad arrivare, sentendosi fallite e sentendosi in colpa nei confronti delle famiglie da cui provenivano, venendo così condannate a una vita da folle senza folle esserlo.

Come ben spiegato in “cose da matti” di Rai Storia, girato al manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma, che contiene al suo interno il più grande archivio manicomiale consultabile in Italia, erano donne con grosse difficoltà a vivere e resistere in contesti socio economici difficili.

Le donne di quest’epoca avevano crolli causati dal rompersi del sogno di poter crescere in una società che sembrava offrire qualcosa di innovativo, o donne usurate dall’esistenza quotidiana in cui dovevano resistere ad una sopravvivenza al limite in un contesto composto da emarginazione, povertà e criminalità.

Da ricordare che al fianco di uno sviluppo economico e industriale c’erano anche intere famiglie che si trasferivano dalle campagne alle periferie delle città, in contesti socioeconomici difficili. Famiglie di cui facevano parte donne madri di anche 10 figli che si trovavano a gestire all’interno di una realtà fatta di difficoltà economiche, donne molto spesso non scolarizzate che si trovarono a vivere in un ambiente nuovo e con un ritmo e una mentalità completamente diversi da quelli in cui erano cresciute.

Queste donne passarono da una vita che credevano nuova ai manicomi in cui rimasero fino alla definitiva dismissione degli ospedali psichiatrici.

Ricordiamo che per chiudere definitivamente i manicomi in Italia ci sono voluti 20 anni: la legge 180 del 1978 fu la prima al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici ma solo tra il 1994 e il 1999, con il “progetto obbiettivo”, si è arrivata alla definitiva chiusura.