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Donne ribelli: le donne inadeguate del regime fascista. Storie di donne da manicomio (1a parte)

Vincenzo Rauccidi
Vincenzo Raucci
Pubblicato il: 17/08/2022 vai ai commenti

Studi e analisi

Di Gemma Maria Riboldi

Loquaci, instabili, incoerenti, stravaganti, capricciose, eccitate, insolenti, indocili, impertinenti, impulsive, irriverenti, erotiche, piacenti, civettuole e tante altre sono le sintomatologie (in totale erano 33) per cui una donna durante il ventennio dell’epoca fascista poteva essere internata. In molti casi queste parole non corrispondevano ad una diagnosi medica, spesso, infatti le porte del manicomio si aprivano per le donne che semplicemente non si conformavano alle prerogative richieste dal regime, non si piegavano al volere maschile e alle regole della società che le volevano spose e madri esemplari.

Donne “non conformi” venivano rinchiuse spesso senza più tornare ad una vita normale.

Un viaggio nel pregiudizio verso una femminilità che “non si adeguava alle aspettative”, per cui bastava condurre uno stile di vita un po’ al di fuori degli schemi precostituiti per finire rinchiuse.

Donne definite “ribelli” e che dovevano quindi essere “rieducate” e ricondotte sui binari richiesti dalla comunità.

Semplice fu, nel ventennio fascista, eseguire questo tipo di ricoveri dallo scopo ben poco assistenziale ma con l’obbiettivo di mantenere un ordine pubblico e di tutela della moralità. Infatti leggi antecedenti al regime fascista, come la legge 36 del 1904 (disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cure), “regolamentava il ricovero coatto di persone pericolose a loro e agli altri e di pubblico scandalo”. Altra data che favorì questa pratica fu l’arrivo nel nostro paese, nel 1913, dei risultati del primo Congresso Internazionale di Eugenica secondo cui era doveroso rinchiudere coloro che non erano più adeguati all’evoluzione sociale dei tempi. I manicomi furono quindi dei mezzi per diagnosticare e medicalizzare “errori di fabbrica”.

Errori di fabbrica, inadeguate, come le “donne ribelli” del regime fascista che avrebbero potuto intaccare la moralità e il patrimonio biologico del Paese. Donne troppo “libertine”, poco propense al ruolo di madre, donne che si ribellavano alle violenze inflitte. Semplicemente donne le cui scelte di vita le discostavano dall’immagine tradizionale del tempo, con un comportamento giudicato “anomalo” solo perché invece che dedicarsi alle faccende domestiche “uscivano troppo spesso”.

La sanità e l’istituzione Psichiatrica fascista diventarono le braccia di una politica di sorveglianza che annullava il diritto individuale in nome “dell’ordine pubblico”. Tra il 1927 e il 1941 i pazienti degli ospedali psichiatrici passarono da 60.000 a quasi 95.000 e molte erano donne.

Considerate contro natura erano anche le donne che soffrivano di “post partum” (condizione ancora oggi poco riconosciuta…) e con loro le donne che manifestavano la volontà di non avere più figli o di non volerne proprio.

Tra le donne condotte nei manicomi in quest’epoca si trovano anche donne e ragazze vittime di violenze carnali e abusi domestici che non riuscivano a superare il trauma, diventando da vittime a colpevoli. Le stesse furono condannate a diventare “carne da richiudere” senza più un ritorno a casa per quanto, con lettere mai spedite, come dimostrano diverse testimonianze di ex manicomi dell’epoca, chiedessero agli stessi parenti che le avevano denunciate di intercedere per loro per rientrare a casa.

Le “donne ribelli” dell’epoca talvolta erano semplici protagoniste di litigi accesi tra vicinato, tanto bastava per un ricovero coatto con la diagnosi “affetta da isterismo di alto grado” o ancora “comportamento quanto mai strano dovuto senza dubbio a squilibrio mentale”.

Possiamo leggere di queste “donne ribelli” della pratica clinica del fascismo nel libro di Annacarla Valeriano Malacarne, libro che narra la vita di queste donne, ragazze, bambine, madri e mogli con una ricchissima documentazione d’archivio: fotografie, diari, lettere, relazioni mediche e cartelle cliniche.

Purtroppo questo tipo di ricoveri non miglioreranno con il dopoguerra e questo tipo di pratiche si protrarranno fino alla legge 180 che aprirà con un atto rivoluzionario le porte dei manicomi.

Per i meno amanti della lettura ma interessati all’argomento è possibile vedere su RaiPlay “Clio, il filo della storia. Cose da matti” del 2018. Questo documentario, nello specifico, narra di storie di donne “emancipate, dal temperamento ostinato e ribelle, che cambiano spesso fidanzato o hanno figli da uomini diversi; oppure fragili, sole, che scappano di casa per fuggire a mariti violenti. Sono queste le pazze che negli anni ‘50 e ‘60”… (continua).