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IFec o IFoc è questo il problema?

Andrea Tirottodi
Andrea Tirotto
Pubblicato il: 01/09/2025

Professione e lavoroStandard AssistenzialiStudi e analisi

01/09/2025

Tra le varie cose per cui la Regione Sardegna è famosa in Italia (no, non vi parliamo di spiagge ed entroterra pur invitandovi a visitarle in quanto migliore terapia possibile al vostro stress lavoro correlato) come altre regioni del sud in verità, vi è anche la frequenza con cui negli archivi storici è comune trovare cognomi e nomi propri con molteplici varianti dovute a errori di trascrizione che spesso hanno portato a nomi scritti in modi differenti anche all’interno della stessa famiglia. Alcuni esempi storici evidenziano nomi che sono stati modificati o storpiati per errori, anche con versioni diverse usate nella stessa famiglia o comunità.

Ecco che un Conte diventa Conti, Tilocca diventa Tiloca, Gianmario Gianuario ecc. ecc.. Questi errori erano dovuti spesso alla difficoltà degli ufficiali d'anagrafe nel trascrivere correttamente nomi detti da persone spesso analfabete o con inflessioni dialettali, alla standardizzazione e italianizzazione che avveniva di molti nomi latini o dialettali e a meri errori di trascrizione dovuti alla pronuncia dialettale che poteva trasformare un nome (es. un padre che pronunciava male o con accento marcato il nome del figlio, e l'ufficiale interpretava in modo errato).

Il documento proposto oggi sui social dalla Fnopi, ci ricorda che nel primo Rapporto sulle Professioni Infermieristiche, realizzato dalla Federazione in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, presentato a Roma il 12 maggio 2025 in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere, vi è una sezione dal titolo “Il modello dell’Infermiere di Famiglia e Comunità in Italia: un’analisi documentale a cura di Lorenzo Taddeucci” (ricercatore del Laboratorio Management e Sanità e del Centro Interdisciplinare Health Science della Scuola Superiore Sant’Anna).

In un paragrafo di questo capitolo si approfondisce la differenza tra l’uso degli acronimi IFeC, definizione richiamata nel position statement della FNOPI “Infermiere di Famiglia e Comunità” ed IFoc che è andato diffondendosi nelle varie regioni italiane in ottemperanza a quanto disposto dal Decreto Ministeriale 77 “Infermiere di Famiglia o Comunità”.

L’autore cerca una spiegazione a questa difformità (si riuscisse mai a fare qualcosa di univoco in questo disgraziato paese) fino a ipotizzare che la terminologia adottata dalle diverse regioni per definire il modello dell’infermiere di famiglia e/o comunità (IFeC o IFoC) potrebbe riflettere diverse interpretazioni o approcci regionali nell’attuazione di questo modello, l’uno suggerendo un modello integrato che abbraccia entrambi gli ambiti, l’altro indicando una maggiore flessibilità nelle funzioni e nelle modalità operative. Una questione che in base alla lettura e interpretazione, potrebbe avere conseguenze importanti rispetto al calcolo dei fabbisogni di personale.

Ora, con tutto il rispetto per il collega ricercatore cui va tutta la mia stima e gratitudine per la complessità e la valenza del rapporto, davvero pregevole e fonte di imprescindibili quanto ordinate informazioni utili a qualsivoglia valutazione della miserevole condizione dell’infermieristica in Italia, a me questa cosa ricorda proprio gli effetti su nomi e cognomi cui accennavamo, conseguenti agli errori comunicativi in sede di anagrafe tra babbi dalle pronunce incomprensibili e addetti all’ufficio poco empatici. E così, nei piani sanitari regionali, l’uso dell’una o dell’altra definizione non sarebbe frutto di chissà quale ragionamento, quanto alla impreparazione degli estensori dei documenti in materia che “tanto che li chiami in un modo o nell’altro, non ce ne sono e qui stiamo a spezzare il capello inutilmente”.

Eh già, perché la fotografia sulle carenze è devastante (come in Sardegna che adotta la definizione IFeC) e si può fare tutta la ricerca che si vuole sulla dinamica che ha introdotto una definizione anziché un’altra come abbiamo detto ma il problema dei problemi rimane sempre lo stesso: attrarre i giovani a questa professione e fare in modo che chi l’ha intrapresa nel Servizio Sanitario Nazionale ci rimanga nella speranza almeno di avvicinarci alla media europea della dotazione ogni cento mila abitanti da cui siamo tanto, tanto lontani con tutte le conseguenze che conosciamo e per cui invito alla terapia accennata in acchito.

Andrea Tirotto