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Sanità sotto pressione: la Cassazione riconosce il nesso tra stress da turni e infarto fatale

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 08/10/2025

La SentenzaLeggi e sentenze

 

Turni estenuanti, stress cronico e mancata tutela: la Suprema Corte ribadisce il dovere dell’azienda di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.

 

È una sentenza destinata a fare giurisprudenza quella emessa dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 26923 del 7 ottobre 2025. La Suprema Corte ha stabilito che il datore di lavoro è tenuto a risarcire gli eredi di un medico morto per infarto, attribuendo il decesso allo stress professionale causato da turni eccessivi e condizioni lavorative usuranti.

Il cuore del pronunciamento ruota attorno al nesso causale tra attività lavorativa e danno alla salute, riconosciuto come elemento decisivo sia per l’equo indennizzo in sede di causa di servizio, sia per l’obbligo risarcitorio civile. Una volta provato il nesso, spetta all’azienda l’onere di dimostrare che l’evento dannoso non è dipeso da una sua responsabilità, ma da una causa a essa non imputabile.

La vicenda

Il caso riguarda un medico ospedaliero, deceduto per infarto dopo un lungo periodo di turnazioni prolungate e condizioni di lavoro ad alta intensità, tipiche di molti reparti ospedalieri italiani. Gli eredi hanno fatto ricorso, sostenendo che il decesso non fu un evento casuale, ma l’esito prevedibile di un logoramento psico-fisico strutturale, mai affrontato né mitigato dal datore di lavoro.

La Cassazione ha dato loro ragione, ribaltando il precedente giudizio di merito che non aveva riconosciuto la responsabilità datoriale. I giudici hanno evidenziato come il mancato accertamento dell’inadempimento contrattuale da parte del datore fosse frutto di una errata valutazione probatoria, non tenendo conto del già riconosciuto equo indennizzo per causa di servizio.

La posizione della Corte

Con estrema chiarezza, la Cassazione ha ribadito un principio cardine: il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e psichica dei dipendenti. Quando emerge una connessione tra le condizioni lavorative e un danno alla salute, l’onere della prova si sposta sull’azienda, che deve dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per impedire il danno (art. 1218 c.c.).

In questo caso, è stato ritenuto che il danno (l’infarto fatale) non derivasse da un episodio isolato, ma fosse l’effetto accumulato di una gestione del lavoro strutturalmente stressogena, aggravata dall’assenza di patologie pregresse e dalla prova del riconoscimento per causa di servizio.

Implicazioni per il mondo sanitario

Questa decisione segna un punto di svolta nella tutela dei lavoratori della sanità, spesso esposti a ritmi massacranti, turni infiniti e carichi emotivi intensi, specialmente nel post-pandemia. Infermieri, medici, operatori sanitari: la sentenza parla a tutti loro.

Per le direzioni sanitarie e le aziende ospedaliere, è un monito chiaro: non basta organizzare i turni e garantire la presenza in reparto. Occorre valutare l’impatto sulla salute del personale, prevedere reali misure di prevenzione del burnout e documentare costantemente le azioni messe in campo per tutelare i lavoratori.

L’ordinanza della Cassazione non risarcisce solo una famiglia: restituisce dignità al lavoro sanitario, spesso dato per scontato, consumato nell’ombra e nel silenzio. La giustizia ha finalmente riconosciuto che la salute degli operatori non è una variabile accessoria, ma un diritto fondamentale da tutelare con rigore.