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Il ruolo centrale dell'Infermiere nelle cure palliative

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La Redazione
Pubblicato il: 26/06/2018

AttualitàNurSind dal territorioNursing

di POMPEO CAMMAROSANO.

 

L’ OMS  nel 2009 definisce in maniera chiara e nitida,  che le cure palliative “sono un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie, che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza, per mezzo di un’identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale”. 

La medicina palliativa si rivolge allora, a pazienti ormai inguaribili, in tutta la loro globalità psichica, fisica, spirituale  e relazionale, con particolare attenzione alla sfera familiare, tanto da assumere grande  importanza, l’aspetto delle cure palliative a domicilio.

La moderna medicina palliativa,  si è sviluppata come pratica clinica e assistenziale, tesa ad alleviare il dolore e tutte le sofferenze, non solo fisiche  ma anche emozionali, sociali e spirituali del malato e della sua famiglia.

Il primo Hospice residenziale in Italia, nasce nel 1987 presso la Domus Salutis a Brescia, grazie alla Fondazione “Teresa Camplani”, dopo  che già dai primi anni ottanta, si erano ormai diffuse esperienze di terapie palliative domiciliari, un po’ in tutta la penisola.

Ma perché le cure palliative nascono come cure domiciliari?

Perché solo con la legge n. 39/1999, viene delineato il quadro organizzativo delle cure palliative, avviando il processo di  diffusione degli Hospice in Italia.

Un'altra ragione per cui si presume che queste cure, si svolgessero prevalentemente a domicilio, potrebbe essere stata anche perché non erano garantite gratuitamente dal SSN e quindi i costi dei ricoveri residenziali in un Hospice,  sarebbero potuti  essere stati sostenuti, solo dai più abbienti o laddove ci fossero state delle associazioni di benefattori a sostenerne i costi.

Nel 2001 anche le cure palliative rientrano nei LEA (livelli essenziali di assistenza) e perciò diventano gratuite e a carico del SSN (DPCM 29/11/2001).

Nel 2010 con la legge del 15 marzo n.38 (tra le prime in Europa in materia) vengono previste alcune importanti novità quali:

  • la rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica, riportando le caretteristiche del dolore e la sua evoluzione nel corso del ricovero;
  • semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore, prevedendo la prescrizione di oppiacei non iniettabili, non più su ricettari speciali in triplice copia ma sul semplice ricettario;
  • formazione del personale medico e sanitario, individuando specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e terapia del dolore, fino alla creazione di Master Universitari;
  • la tutela all’art. 1, del diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative ed alla terapia del dolore, dividendo l’accesso alle cure  in tre reti di assistenza: una per le cure palliative, una per la terapia del dolore  ed una per il paziente pediatrico.

Perché il legislatore ha sentito il bisogno di una disciplina particolare per le cure palliative pediatriche? Perché a differenza  dell’ adulto, in ambito  pediatrico, oltre alle esigenze del paziente, sono particolarmente rilevanti anche quelle della famiglia, che deve affrontare insieme, il percorso della malattia più lungo, rispetto a quello dei pazienti adulti.

Mentre per cure palliative nei pazienti adulti, intendiamo, di solito, le cure terminali, nel bambino le cure terminali, dedicate ai pazienti oncologici, sono solo il 20% e perciò il resto riguarda malattie inguaribili,  di cui bisogna comunque prendersi cura,  per anni ed anni (anche una ventina), dando una risposta ai più svariati bisogni dei pazienti pediatrici e delle loro famiglie.

Peccato però, che la legge sia bella ed innovativa ma manchino ancora, la rete di cure palliative pediatriche e di terapia del dolore e perciò, si ritorni ancora una volta, alle origini della medicina palliativa, chiedendo aiuto alle  associazioni di volontariato, come l’Associazione Maruzza Lombardia, nata nel 2017 all’interno della Fondazione Maruzza Onlus e composta da genitori, volontari ed operatori sanitari, la cui missione è  quella di “sensibilizzare cittadini ed istituzioni, per l’applicazione e lo sviluppo della legge n. 38 del 15/03/2010, sostenendo la creazione di una rete, che metta in sinergia le risorse disponibili, coinvolgendo e formando i molti attori presenti nel territorio dell’ Est   Lombardia, che afferisce all’ Ospedale dei Bambini di Brescia”.

Ma  dove è la centralità dell’infermiere all’interno di una equipe di cure palliative?

Nella natura stessa di queste cure, che non possono guarire ma possono soddisfare solo i bisogni dei pazienti.

Chi più di un  infermiere, sa cosa significhi prendersi cura in modo olistico dei pazienti?

Servono le diagnosi, le prognosi ma si arriva ad un punto in cui bisogna fermarsi e rispettare soltanto la dignità e l’autonomia, di chi non può più guarire, garantendogli cure adeguate ed appropriate alle proprie esigenze di salute.

Una famosa psicologa e psicoterapeuta francese, Marie de Hennezel, dopo anni di lavoro persso una Unità di Cure Palliative a Parigi, elaborò un metodo di approccio ai pazienti terminali detto aptonomia, costituito da un approccio tattile ed affettivo al paziente, che gli assicurava una presenza umana e vera.  

Il dramma per le famiglie di un bambino affetto da una malattia inguaribile, è crescente, poiché scoppia al momento  in cui si fa diagnosi di malattia rara/inguaribile, poi, aumenta nel momento in cui, gli viene comunicata la prognosi infausta con la previsione di una morte certa, in un approssimativo lasso di tempo ed infine, si raggiunge il culmine, quando si diventa consci di dover convivere con una malattia terminale lunga ed il cui precoce processo di elaborazione del lutto, diventa logorante.