Stress lavoro correlato. Cassazione, basta il clima tossico per il risarcimento del danno
Con l’ordinanza 10730/2025, la Suprema Corte cambia il paradigma: non serve più un “carnefice” per ottenere giustizia.
6 ottobre 2025 – Una svolta silenziosa, ma pesante come una pietra tombale sulle vecchie distinzioni tra mobbing, straining e danno da stress lavoro-correlato. Con l’ordinanza n. 10730/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui si valuta la responsabilità del datore di lavoro in caso di disagio psicologico del dipendente.
In parole semplici: per ottenere un risarcimento non serve più dimostrare che il capo o i colleghi abbiano perseguitato il lavoratore. Basta che l’ambiente di lavoro sia diventato tossico – anche involontariamente.
Il caso: niente mobbing, ma un carico insostenibile
La vicenda nasce da un ricorso presentato da una lavoratrice pubblica, che lamentava un sovraccarico lavorativo non accompagnato da formazione, la sostanziale indifferenza dell’amministrazione alle sue condizioni psicofisiche e l’assegnazione di incarichi anche durante fasi critiche della sua salute. Tutti segnali di un contesto di lavoro stressante, ma privi — secondo i giudici di merito — dei tratti persecutori tipici del mobbing.
La Corte d’appello aveva infatti negato ogni forma di risarcimento, sostenendo che le condotte contestate non rientrassero nei canoni rigidi del mobbing: niente intento vessatorio, niente sistematicità, nessun progetto distruttivo. Il caso, per i giudici di secondo grado, finiva lì.
Ma la Cassazione ha ribaltato il tavolo: non serve che ci sia un “plotone d’esecuzione”, basta che l’organizzazione del lavoro causi uno squilibrio psicofisico al dipendente. Una disfunzione gestionale può bastare. E se il danno è reale e documentabile, il datore può essere condannato.
Il cuore della sentenza: l’art. 2087 come argine alla negligenza organizzativa
La Corte richiama l’art. 2087 del Codice civile, che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare “l’integrità fisica e la personalità morale” dei lavoratori. Una norma antica ma sempre più centrale, soprattutto nell’era post-pandemica dove la salute mentale è emersa come uno degli asset più vulnerabili nei luoghi di lavoro.
Ecco cosa scrivono i giudici:
“Anche condotte solo apparentemente legittime, se collocabili in un contesto ambientale stressogeno e fonte di disagio psicofisico, possono determinare responsabilità datoriale.”
Tradotto: non conta solo cosa fa il datore, ma anche cosa non fa per evitare che il lavoro diventi un fattore di rischio per la salute mentale.
Oneri probatori: cambia lo schema
Il nuovo paradigma impone uno scambio di responsabilità più equilibrato in giudizio:
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Il lavoratore dovrà provare il danno e il collegamento causale con l’ambiente lavorativo.
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Il datore di lavoro, invece, dovrà dimostrare di aver fatto tutto quanto ragionevolmente possibile per prevenire quello stress: valutazioni del rischio aggiornate, formazione, ascolto interno, azioni correttive.
In sostanza, la difesa d’ufficio del tipo “non era mobbing” non basta più.
Gli effetti: meno impunità, più prevenzione
L’impatto di questa ordinanza è potenzialmente dirompente. Non solo perché rende più accessibile la tutela giurisdizionale per i lavoratori colpiti da disagio psichico, ma anche perché costringe le aziende — pubbliche e private — a inserire seriamente lo stress fra i rischi da valutare e da gestire.
Secondo alcuni giuslavoristi, è una correzione necessaria. “Troppo spesso – spiega l’avvocato del lavoro Michele L. – i lavoratori sono rimasti scoperti perché non riuscivano a dimostrare un disegno persecutorio. Ma il danno c’era, ed era reale. Con questa pronuncia, la Cassazione ci ricorda che la sicurezza sul lavoro non si ferma all’elmetto o alla scarpa antinfortunistica: vale anche per la mente”.
Un cambio culturale ancora prima che giuridico
La vera novità dell’ordinanza 10730/2025 è culturale. La Corte sposta il focus dal dolo alla disfunzione, dalla cattiva intenzione alla cattiva organizzazione. Si afferma un principio di responsabilità oggettiva dell’impresa per gli effetti collaterali del suo funzionamento.
E questo avviene in un momento in cui, secondo dati INAIL, le denunce di malattie professionali di natura psichica sono in aumento (+15% rispetto al 2023), segno che il disagio psicologico nei luoghi di lavoro non è più un’eccezione, ma una condizione diffusa.
Non è più solo questione di mobbing. È questione di clima, di carichi, di cura.
Per approfondire:
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Cass. Civ., sez. lav., ord. n. 10730/2025
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Art. 2087 c.c.
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Commento su Olympus: olympus.uniurb.it
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Approfondimento su Bollettino Adapt: bollettinoadapt.it