Autogestione del dolore cronico, il nuovo fronte della cura. Cosa dice lo studio pubblicato Lancet
di
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 01/12/2025
Il dolore cronico è una presenza costante nella vita di una persona su cinque. Nonostante i progressi clinici, resta una delle sfide più complesse per la sanità pubblica. Lo studio pubblicato su Lancet il 17 maggio 2025 riporta l’attenzione su un punto spesso trascurato: gestire il dolore non significa solo trattare un sintomo, ma comprendere i meccanismi psicologici e neurobiologici che lo alimentano. Ed è su questo terreno che l’autogestione, guidata da professionisti competenti, può diventare una leva potente.
Il dolore cronico come malattia, non solo un sintomo
L’ICD-11 riconosce il dolore cronico come una malattia distinta. Le percentuali sono chiare: circa il 20 per cento degli adulti convive con un dolore persistente per più di tre mesi. Nel 5 per cento dei casi il dolore ha un impatto alto e compromette la vita sociale, lavorativa e relazionale.
Secondo la IASP, il dolore non è un segnale meccanico ma un’esperienza personale, plasmata da fattori biologici, emozionali e sociali. Il cervello non registra soltanto lo stimolo nocicettivo: coinvolge sistemi collegati alla memoria, al processo decisionale, alla motivazione. Tutti questi circuiti partecipano alla transizione dal dolore acuto a quello cronico.
Lo studio ripercorre cinque grandi filoni di alterazioni neuronali che possono sostenere il dolore nel tempo: dalla sensibilizzazione delle vie nocicettive all’impatto sui sistemi di ricompensa e di esplorazione sociale, fino ai cambiamenti nelle aree prefrontali che regolano giudizi e comportamenti.
Gli interventi psicologici: cosa funziona davvero
Nel panorama degli interventi psicologici, le prove più solide arrivano dalla terapia cognitivo comportamentale. Le meta analisi Cochrane lo confermano: gli studi di qualità mostrano che lavorare su convinzioni, comportamenti e reazioni emotive riduce disabilità e sofferenza anche quando il dolore non scompare.
Altri approcci, come la Acceptance and Commitment Therapy, puntano a favorire l’impegno nelle attività importanti nonostante la presenza del dolore. Funziona perché cambia il significato che la persona attribuisce ai segnali che riceve dal corpo.
Il limite più grande non riguarda l’efficacia ma l’accesso. Molti interventi vengono erogati da professionisti che non hanno una formazione specifica sul dolore. Allo stesso tempo cresce l’offerta digitale, tra app e piattaforme web. Lo studio ricorda però che solo una minima parte delle app disponibili è fondata su principi psicologici solidi e ancora meno sono state testate con metodi rigorosi.
Il ruolo della relazione terapeutica
Il contributo pubblicato su Lancet dedica ampio spazio a ciò che accade nei primi incontri tra paziente e clinico. Qui si gioca una parte cruciale della possibilità di cambiare rotta. Alcuni punti chiave:
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Riconoscere il dolore come reale. Molti pazienti arrivano con la paura di non essere creduti. Legare le spiegazioni alla neurobiologia può aiutare a dare senso al dolore anche quando non ci sono lesioni evidenti.
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Personalizzare la lettura del problema. Ogni persona costruisce una propria narrazione del dolore. Chiedere quale sia stata la miglior spiegazione ricevuta in passato permette di capire convinzioni, paure e aspettative.
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Sciogliere credenze rigide. Molti vivono il dolore cronico come una condanna. Mettere alla prova queste idee apre spazio ad alternative più funzionali.
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Spostare il focus dalla riduzione del dolore alla ripresa delle attività. L’obiettivo non è controllare ogni sintomo ma riconquistare autonomia e partecipazione sociale.
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Costruire speranza. Messaggi chiari e realistici sul cambiamento possibile sono una parte del trattamento, non un semplice incoraggiamento.
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Attivare il contesto sociale. Familiari e persone vicine possono rinforzare i progressi o, al contrario, alimentare credenze limitanti.
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Normalizzare le ricadute. Il percorso non è lineare. Fluttuazioni e regressi non significano fallimento ma parte del processo.
Perché l’autogestione è un obiettivo, non un compito lasciato al paziente
Lo studio insiste su un punto: autogestione non significa lasciare il paziente solo, ma dotarlo di strumenti, informazioni e sostegno per affrontare il dolore con strategie efficaci. Empatia, validazione, obiettivi realistici e un clima non giudicante sono elementi trasversali a ogni intervento psicologico.
Il futuro: portare i principi della psicologia del dolore fuori dagli ambulatori
Se le terapie specialistiche restano fondamentali, il vero salto sarà rendere questi principi parte integrante dell’assistenza primaria, dei luoghi di lavoro e delle campagne di salute pubblica. Il dolore cronico non è solo un problema individuale. È un fenomeno che coinvolge cultura, comunicazione e credenze diffuse.
Il messaggio del lavoro pubblicato su Lancet è netto: comprendere come funzionano i meccanismi psicologici e cerebrali del dolore permette di costruire interventi più efficaci, ridurre l’uso inappropriato di farmaci e restituire alle persone un ruolo attivo nella propria salute. Il dolore cronico non si cancella con una sola tecnica, ma si può imparare a gestirlo meglio. E questo, per milioni di persone, fa tutta la differenza.
cura della Redazione A. L’autogestione del dolore cronico: principi psicologici di base e meccanismi neurobiologici. Assist Inferm Ric2025;44(3):124-129. doi 10.1702/4564.45639