Morire in ambulanza: una riflessione sulla sicurezza degli operatori del soccorso
Infermieri, soccorritori, volontari. Sempre presenti, mai protetti.
Il 4 agosto, sull’autostrada A1, un incidente gravissimo ha stroncato tre vite e ne ha ferite diciotto. Tra le vittime, volontari del soccorso: persone che hanno dedicato tempo, energie e competenze per aiutare gli altri. Persone che sono morte in servizio, mentre soccorrevano.
È una tragedia le cui dinamiche restano ancora da chiarire, che ci mette di fronte all'imprevedibilità degli eventi. Ma proprio per questo impone una riflessione necessaria e urgente, che esula dal caso specifico.
chi lavora su un’ambulanza è davvero tutelato?
Il rischio esiste. Ma è ancora sottovalutato.
Chi opera sull’emergenza – che sia infermieri, soccorritori, volontari o autisti – non lavora in condizioni standard. Lavora:
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Su carreggiate attive, tra auto in corsa.
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In condizioni di visibilità scarsa, in notturna o con meteo avverso.
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Senza zone di sicurezza reali.
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Spesso in emergenze caotiche, con più vittime e zero certezze.
Non sono solo incidenti stradali: ci sono aggressioni, incendi, ambienti ostili, e sempre più spesso, stress psico-fisico continuo.
Eppure, la percezione collettiva e normativa di questo rischio è minima.
Le vittime
Le tre vittime dell’incidente sono due volontari del 118 – Gianni Trappolini, 56 anni, e Giulia Santoni, 24 anni – e il paziente che stavano trasportando, un uomo di 75 anni.
Il governatore Eugenio Giani ha espresso “il più profondo cordoglio della Regione Toscana ai familiari delle vittime”, rivolgendo “un pensiero commosso e un abbraccio alla Misericordia”.
Una giovane volontaria, un soccorritore esperto, un paziente fragile.
Tre vite spezzate. E un’intera comunità colpita.
Una tutela disomogenea e spesso insufficiente
Il Decreto Legislativo 81/2008 impone la valutazione e prevenzione dei rischi per tutti i lavoratori. Ma chi opera nelle pubbliche assistenze, nelle associazioni convenzionate, nel volontariato organizzato, non ha le stesse tutele di chi è inquadrato nel sistema sanitario pubblico.
Ci sono disparità gravi tra regioni, aziende, associazioni.
Ci sono operatori senza DPI adeguati, senza formazione sufficiente, senza copertura assicurativa solida.
Chi sale su un’ambulanza dovrebbe poterlo fare in sicurezza, con regole chiare, strumenti adatti e garanzie minime. Ma spesso così non è.
E quando si muore in servizio?
Quando accade una tragedia come quella del 4 agosto, i media parlano di “ambulanze”, di “volontari”, di “intervento del 118”.
Ma chi erano davvero quelle persone? Che preparazione avevano? Che tutele? Che riconoscimento?
Chi soccorre è spesso anonimo, invisibile nella narrazione pubblica, e lo è anche quando cade in servizio. Questo silenzio è il sintomo più evidente del problema culturale: diamo per scontata la presenza del soccorso, ma non ci chiediamo cosa comporti.
Educare alla sicurezza, costruire cultura del rispetto
Serve un cambio radicale. Serve:
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Un piano nazionale per la sicurezza degli operatori dell’emergenza extraospedaliera.
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Standard minimi obbligatori per DPI, formazione e tutela assicurativa per tutti, anche i volontari.
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Campagne di comunicazione pubblica che restituiscano identità e valore a chi lavora (e spesso rischia) nei servizi di emergenza.
E serve educare anche dall’interno:
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Le scuole, i corsi di formazione, i centri di addestramento devono insegnare la sicurezza come base, non come optional.
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Ogni operatore deve sapere che ha diritto a lavorare tutelato. Che non è “normale” esporsi al pericolo senza strumenti.
Chi lavora in ambulanza – volontario o professionista – non è un eroe per definizione. È una persona che ha bisogno di protezione, di rispetto e di diritti.
E quando uno di loro muore in servizio, non basta il cordoglio. Serve responsabilità.
È il momento di riconoscere che salvare vite non può voler dire rischiare la propria, senza regole e senza garanzie.
La redazione di InfermieristicaMente esprime vicinanza alle famiglie delle vittime.