La saggezza dei matti: ecco perché certi detti dicono più della psichiatria
L’Enciclopedia Treccani definisce il proverbio “Breve motto, di larga diffusione e antica tradizione, che esprime, in forma stringata e incisiva, un pensiero o, più spesso, una norma desunti dall’esperienza”.
Usato da sempre e in tutte le culture, esso non tramanda, però, né un sapere consolidato né tantomeno dogmatico, ma offre, a seconda delle situazioni o dei contesti storici, stimolanti chiavi di lettura di ciò che accade.
Lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes (1547-1616) diceva che i proverbi sono le “frasi corte disegnate dalle esperienze lunghe”, ovvero dalle esperienze dei popoli, tant’è che di modi di dire è impregnata la storia di tutte le culture, ad ogni latitudine.
La storia dei proverbi è più antica di qualsivoglia, primordiale forma di scrittura, anzi: proprio per la sua capacità di restare impresso, ora come monito, ora come insegnamento, il proverbio può considerarsi uno dei primissimi tentativi (ben riuscito, visti i risultati) di tramandare, all’interno di sistemi interpersonali e intergenerazionali, norme e regolamenti di vita; tant’è che se ne rinviene un ampio uso sia nella tradizione ebraica che in quella araba.
Tuttavia, non possono essere presi ad esempio per tramandare verità assolute, data la singolare proprietà di smentirsi l’un l’altro. Si prenda, come esempio, il detto “Chi fa da sé, fa per tre” che contrasta palesemente con quello che recita “L’unione fa la forza”, oppure i proverbi contraddittori “Chi troppo vuole nulla stringe” e “Chi non risica non rosica”.
Insomma: nulla di troppo serio, ma nemmeno di troppo leggero… questo è lo spirito col quale mi accingo a proporvi questa raccolta di proverbi dialettali italiani, aventi per protagonisti i “matti”. Così come i proverbi ci raccontano le “esperienze dei popoli”, allo stesso modo vorrei raccontarvi, attraverso questa raccolta, l’esperienza dei popoli rispetto al tema della salute mentale.
Fondendo, cioè, la tradizione, l’esperienza, i luoghi comuni, i detti e i non detti, la storia, la filosofia, le leggende dipingerò un inedito quadro, neanche troppo astratto, che parli di follia.
Parlando di quadri, credo proprio che la follia la possiamo paragonare ad un quadro astratto, dove l’autore dipinge ciò che sente ed ognuno ci vede ciò che vuole.
Analizziamo, ora, un proverbio della Calabria:
AVIRE SALE ’NTRA ’A CUCUZZA (Avere sale, ovvero giudizio, in testa)
Le origini di questo detto si perdono nella notte dei tempi: il sale, in antichità, era considerato un bene prezioso; tra gli antichi romani si usava come denaro corrente (da qui il termine “salario”) e, lungo le vie del sale (es.: la via salaria), sorsero importanti città.
Il sale era prezioso, al pari del danaro, poiché permetteva di fornire alla dieta il giusto apporto di sali minerali, di dare sapore ai cibi, di conservare gli alimenti.
Nel mondo contadino alcuni tipi di zucche (es.: la Lagenaria siceraria) venivano usate, una volta svuotate della polpa, come contenitori, sia per solidi che per liquidi.
Diventavano, quindi, ottimi contenitori per i preziosi cristalli di sale (le testimonianze pittoriche sono numerosissime e non di rado si possono notare, fin dalle prime raffigurazioni dei santi, le belle fiaschette vegetali appese alla cintura o ai bastoni dei viandanti).
Avere una zucca vuota era, quindi, sinonimo di povertà e, da quando il termine “zucca” è diventato anche sinonimo di “testa”, una zucca vuota è diventato sinonimo di povertà dell’intelletto, di carenza di contenuto, ovvero di materia grigia.
C’è, infine, anche una spiegazione botanico-biologica: la polpa della zucca è ricca di acqua e povera di sale, quindi avere del “sale in zucca” è da considerarsi un evento rarissimo e la persona in questione essere considerata di un’intelligenza superiore alla norma. D’altro canto, il termine “insipido” viene usato spesso per indicare una persona insignificante, banale, priva di “salacità”.