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Accolto ricorso di dipendente demansionata: risarcita con 87mila euro

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 20/05/2024 vai ai commenti

La SentenzaLeggi e sentenzeProfessione e lavoro

Una sentenza emessa dal Tribunale di Chieti ha accertato il demansionamento subito da una dipendente. La Corte ha ordinato la reintegrazione della lavoratrice nelle mansioni precedentemente svolte e ha disposto un risarcimento di euro 87.587,00.

I Fatti del Caso

La dipendente della banca dal 1992, ricopriva dal 2004 il ruolo di quadro direttivo di secondo livello e, dal 1 dicembre 2011, aveva assunto l'incarico di "responsabile dell'ufficio segreteria fidi" presso la sede centrale. Tuttavia, il 4 dicembre 2013, veniva trasferita alla succursale con l'incarico iniziale di "vice reggente" e, successivamente, dal maggio 2014, di "responsabile operativo". La lavoratrice ha presentato ricorso al Tribunale di Chieti, sostenendo di essere stata demansionata con il trasferimento e richiedendo la reintegrazione nelle mansioni precedenti e il risarcimento dei danni subiti.

La Sentenza del Tribunale di Chieti

Il Tribunale, ordinando alla banca di reintegrarla nelle mansioni precedentemente svolte o in mansioni equivalenti e ha condannato l'azienda al risarcimento dei danni per dequalificazione professionale, quantificati in euro 87.587,00, pari al 50% della retribuzione mensile percepita a dicembre 2013 moltiplicata per i 42 mesi intercorrenti fino alla data della sentenza. Tra le motivazioni della Corte d'Appello, che hanno portato al risarcimento vi è la perdita di professionalità e l'impossibilità di valorizzare le competenze acquisite dalla lavoratrice nel nuovo ruolo.

In tema di demansionamento la Corte afferma che il comportamento datoriale dà luogo ad un illecito permanente. Anche in altri settori ordinamentali, e in particolare in tema di illecito amministrativo, la Corte ritiene configurabile un illecito permanente in tutti i casi in cui la durata dell’offesa è correlata – sul piano eziologico – al permanere della condotta colpevole dell’agente; si configura invece l’illecito istantaneo ad effetti permanenti quando perdurano nel tempo solo le conseguenze della violazione, pur quando sia già cessata la condotta illecita.

L’illecito è permanente quando la situazione illecita viene instaurata dalla condotta iniziale, a cui si accompagna il mantenimento della medesima situazione, di fatto e/o di diritto, sicché per la cessazione dell’offesa agli interessi tutelati è necessaria un’ulteriore condotta, contraria alla precedente, idonea a rimuovere la predetta situazione.

Ciò è proprio quanto accade in tema di demansionamento: l’adibizione a mansioni tali da violare l’art. 2103 c.c. determina una situazione illecita (e pregiudizievole per il diritto alla professionalità del dipendente), che può venire meno solo se e quando il datore di lavoro, esercitando nuovamente il suo ius variandi, adibisca il dipendente a mansioni che rispettino i limiti posti dal legislatore. Se invece tale riedizione del potere non si verifica, la situazione antigiuridica permane per una scelta propria e volontaria del datore di lavoro. Dunque si è al cospetto di un illecito permanente, come esattamente ritenuto dai giudici d’appello.

In conclusione, in tutte le branche del nostro ordinamento l’illecito permanente è quello in cui l’offesa arrecata al diritto o all’interesse protetto si protrae nel tempo per effetto della persistente condotta volontaria. Tale è il caso dell’adibizione a mansioni inferiori.