Studenti infermieri. Tecniche di sopravvivenza al tirocinio: come affrontarlo
Provo a tornare un momento sulla questione tirocinio già magistralmente trattata dalla collega La Puma per fare un paio di considerazioni.
Era il 1997 quando terminavo il mio percorso di studi e il presidente del corso di allora, l’illuminata professoressa Ida Mura, relatrice della mia tesi, mi chiese di illustrarle quali punti deboli avesse il percorso di tirocinio soprattutto.
Indovinate di cosa le parlai? Esattamente delle stesse cose raccontate nel pezzo della collega. Quanti anni sono passati? Ventisei nel mio caso ma sono certo che potremmo andare anche molto più in là nel tempo.
Eppure mi pare ieri che le raccontavo come nel tirocinio non ci fosse un ordine, un filo che tenesse conto di argomenti, progressione dell’esperienza e consentisse una valutazione puntuale delle abilità richieste ed acquisite nel tempo, diversificate per anno. D'altronde, al personale in servizio non veniva richiesto che le stesse abilità fossero nuovamente certificate dalla fine del percorso di studi, allora come oggi.
Da queste riflessioni nacque a Sassari il libretto di tirocinio che nella prima versione costruii personalmente. Un piccolo strumento sperimentale diventato poi strutturale e che negli anni ha subito modifiche fino alla sua ultima versione che a me, devo dirlo, non piace ma che comunque maneggio con cura quando ho la fortuna di vedermi affiancato qualche studente.
E si, la chiamo fortuna perché è grazie al confronto con loro che ancora trovo qualche motivazione per continuare a svolgere questa professione che con onestà confesso, mi ha stancato. E mi ha stancato per molti dei motivi per cui non è attrattiva e tanta carenza soffriamo: stipendio e prestigio in primis, inconsistenza della carriera, difficoltà di incidere nei processi evolutivi ed aziendali per proseguire.
Uno stimolo dicevo perché dal confronto, continuo a rilevare le stesse identiche carenze di sempre: dal “si è sempre fatto così” mirabilmente descritto dal collega Raucci, alla difformità dell’insegnamento pratico tra un tutor e l’altro, tra un reparto e l’altro sede del tirocinio.
In questo, penso che molta responsabilità ce l’abbiano gli organi di rappresentanza e di contrattazione della categoria che ancora non sono riusciti a far riconoscere un percorso formativo e professionale per tutor clinici: professionisti formati e pagati per insegnare e guidare il tirocinio clinico e pratico degli studenti che abbiano quindi competenze specifiche di insegnamento oltre che abilità professionali certificabili ovviamente e auspicabilmente aggiungerei.
Mi ritrovo quindi a dare sempre gli stessi identici consigli ai miei studenti. Il primo è quello di protestare attraverso le loro rappresentanze nei confronti dell’ateneo che non certifica un percorso formativo di tirocinio, fondato su standard qualitativi valutabili attraverso sistemi di controllo riconosciuti, a fronte di tasse universitarie cospicue comunque incassate.
Il secondo è quello di partire da una certezza scientifica quale è quella del manuale pratico infermieristico. Un manuale cui rifarsi per comprendere la corretta preparazione ed esecuzione di una procedura da assumere quale standard. Voglio dire, se mi trovo a Bombay, Roma, o Tokio e compro un hamburger della famosa catena di ristoranti, la sua preparazione e il suo sapore sono sempre uguali. E allora perché da reparto a reparto, da collega a collega un’intramuscolo si fa in diecimila modi diversi?
Il terzo, è quello di guardare poi all’esperienza di ogni singolo operatore con cui saranno affiancati non già per attingere certezza sulla procedura da eseguire (per quella c’è il manuale abbiamo detto) quanto per assorbire come spugne la parte buona del valore aggiunto che ognuno può mettere a disposizione, ossia l’esperienza; quel patrimonio di “trucchi e trucchetti” che scremato da convinzioni e certezze, può essere una fonte cui ricorrere tutte le volte che qualcosa non va come il manuale, le linee guida, i protocolli e le procedure raccontano. Un atteggiamento utile anche per non entrare in conflitto o discussione con nessuno.
Uno strumento di sopravvivenza insomma che salva capre e cavoli ma non assolve nessuno di noi dal mettere in discussione le proprie convinzioni e tantomeno l’università dal restituire una formazione di qualità, visto quel che costa.
Andrea Tirotto