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Luca Benci. Morì per un errore nel dosaggio di un chemioterapico. Per i giudici di Palermo quanto accaduto al Paolo Giaccone nel 2011 è il “più grave episodio di colpa professionale del Mondo”. Ma è così?

Chiara D'Angelodi
Chiara D'Angelo
Pubblicato il: 25/03/2016 vai ai commenti

La rubrica di Luca benciLeggi e sentenze

da QUOTIDIANO SANITA'Depositate le motivazioni del processo a carico di una intera equipe di un day hospital del Policlinico palermitano. Coinvolti due medici specializzandi, un medico strutturato, uno studente di medicina e due infermiere. La pessima organizzazione è stata alla base di tutta la vicenda. La gravità del fatto rimane. Ma la tragica morte della giovane donna però non può trasformarsi in una giustizia vendicativa e umorale.

 

Sono state depositate le motivazioni del processo svoltosi presso il Tribunale di Palermo (V sezione penale, sentenza 14 dicembre 2015, n. 6614) a carico di una intera equipe assistenziale di un day hospital del Policlinico “Paolo Giaccone” di Palermo: due medici specializzandi, un medico strutturato, uno studente di medicina e due infermiere.

Avevamo già avuto modo di occuparci della vicenda facendo alcune considerazioni a caldo sul dispositivo della sentenza di condanna di pressoché tutti gli imputati (ad eccezione dello studente di medicina). Il fatto ha coinvolto quindi tutta una intera equipe interprofessionale e presenta una serie di complessità che vengono descritte nella corposa sentenza di ben 277 pagine.

Tutta la vicenda è ruotata intorno a un errore di trascrizione che ha portato a somministrare 90 anziché 9 mg di Vinblastina all’interno di un day hospital del nosocomio siciliano a una persona affetta da linfoma di Hodgkin.

Un errore di trascrizione di uno specializzando (che ha aggiunto lo zero a 9), la trasmissione di un fax all’unità addetta alla preparazione degli antiblastici, l’arrivo in reparto del medicinale in dosi errate e la relativa somministrazione hanno portato a morte una giovane donna di 33 anni.

Prima di inoltrarci nei particolari del fatto e delle motivazioni dobbiamo, in primo luogo, sottolineare il lessico utilizzato dal giudice del Tribunale di Palermo che non ha eguali, per lo meno a nostra memoria, in altri processi penali di natura colposa. Leggiamo dalle motivazioni che si tratta di una donna “assassinata all’interno di un ospedale pubblico, nel dipartimento di oncologia del Policlinico ‘Paolo Giaccone’ di Palermo”.

Termini che vengono usualmente utilizzati per l’omicidio volontario fanno la loro comparsa in un processo per omicidio colposo. Aggiunge il giudice che questa vicenda rappresenta il “più grave episodio di colpa relativa ad operatori sanitari mai verificatosi al mondo” in quanto si tratta di una erronea somministrazione  “talmente madornale” da non potersi pensare neanche che si potesse verificare. Continua il giudice affermando che “è il caso di dire che gli imputati cagionarono ‘deliberatamente’ la morte della paziente”, avendo poi modo di precisare di non stare parlando di comportamento doloso (l’avverbio deliberatamente evoca indubitabilmente un comportamento doloso) ma la “realizzazione di una pluralità di condotte, autonome ma concatenate, tutte caratterizzate dal massimo grado della colpa” per imperizia, negligenza e imprudenza (questa ultima definita “mastondontica”). Rafforza i concetti parlando di “cronaca di una morte annunciata”.

Le condanne sono state di conseguenza. Tutte vicine al massimo edittale di cinque anni sia per i medici che per gli infermieri. Siamo, non ci sono dubbi, all’interno di una storia di disorganizzazione e di malaorganizzazione dove alla fine rispondono pesantemente pressoché tutti gli anelli deboli della catena.

Andiamo per gradi. Il Policlinico di Palermo autorizza l’apertura di un day hospital, dandogli la veste di “struttura semplice”, con un solo medico strutturato. Lui e solo lui avrebbe dovuto prendersi cura del reparto che, sarà pure un “ospedale di giorno”, ma impossibilitato a funzionare regolarmente con un solo medico, per di più universitario con i molteplici impegni accademici che tale status comporta.

Ecco allora che l’intera gestione medica avviene per mano di specializzandi che, di fatto, gestiscono con un’autonomia praticamente totale il day hospital. E’, purtroppo, una storia comune a molti reparti universitari, dove, per motivi vari, si registra un ampio sfruttamento degli specializzandi contravvenendo a regole di prudenza e norme ordinarie.

Dunque il tutto parte dall’errore di uno specializzando nella prescrizione della terapia che viene trascritta in un apposito modulo e inviata via fax all’unità che prepara i farmaci antineoplastici (ovviamente non a norma, con la presenza di una sola infermiera, senza farmacista). La prescrizione e la trascrizione prevedono la preparazione di 90 mg di Vinblastina (in luogo di 9 mg) da prepararsi direttamente in siringa e da somministrarsi “in bolo”. La prescrizione anomala porta l’infermiera a interrompere il suo lavoro, a telefonare al reparto, dove risponde una specializzanda, che conferma il dosaggio e da indicazioni operative – svuotare una soluzione fisiologica da 100 ml e riempirla di Vinblastina – all’infermiera addetta alla preparazione. Intercorre una telefonata tra l’infermiera e la coordinatrice che, informata della mancanza di parte del farmaco, provvede a ordinare il quantitativo mancante. Il composto viene preparato e inviato in reparto dove un’altra infermiera provvede alla somministrazione.

Le proprietà altamente vescicanti del farmaco portano, in pochi giorni, tragicamente a morte la paziente.

Concentreremo la nostra attenzione proprio su questo fatto trascurando gli eventi successivi che sono, per la loro gravità – tra cui la mancata informazione per un certo periodo di tempo alla paziente -  incommentabili.

Quindi un reparto viene gestito di fatto dagli specializzandi con la presenza sporadica, come si è appreso, del titolare della struttura semplice. Tra l’altro si trattava di un reparto di oncologia che trattava prevalentemente “tumori solidi” e il precedente primario aveva emanato una circolare in cui si davano disposizioni in merito alle tipologie di pazienti da non accettare con particolare riferimento ai “tumori liquidi” (il linfoma di Hodgkin lo è!). La disposizione ha avuto un ruolo importante nel processo.

La carenza di conoscenze da parte degli specializzandi e il loro utilizzo come “forza lavoro” sono stati più volte posti all’attenzione della giurisprudenza di merito e di legittimità che ha avuto modo di formulare il concetto di “colpa per assunzione” prontamente sposato dal giudice palermitano. Per “colpa per assunzione” si intende la tipologia di colpa riferita al soggetto che si trova nella fase di completamento della formazione presso una struttura sanitaria – come nel caso di specie - , accetta di occuparsene, di prenderlo in carico e di trattarlo nella consapevolezza di non avere le cognizioni necessarie per svolgere quella tipologia di attività pur essendo sotto la direzione del tutor. Nel caso in questione il tutor era sostanzialmente assente. Il concetto di colpa per assunzione trova il suo fondamento nel dovere di diligenza e quindi nell’obbligo di astenersi da determinate attività. Tutto molto logico e razionale ma per la nota ricattabilità che si può determinare nelle scuole di specialità mediche nei confronti degli specializzandi, risulta essere di estrema difficoltà applicativa. La Cassazione aveva già avuto parole chiare su questo aspetto sottolineando che lo specializzando “non è una mera presenza passiva”,  né “può essere considerato un mero esecutore d'ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia”.

Continua la Suprema Corte “si tratta di un'autonomia che non può essere disconosciuta, trattandosi di persone che hanno conseguito la laurea in medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione specialistica, l'attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un'attività svolta sotto le direttive del tutore.

Ma tale autonomia, seppur vincolata, non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle deve rifiutarne lo svolgimento perché diversamente se ne assume le responsabilità (c.d. colpa per assunzione ravvisabile in chi cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto all'agente modello di riferimento). Pertanto sussiste la responsabilità professionale sia per i medici strutturati che per gli specializzandi" (Cass. pen., Sez. 4, 10.12.2009, n. 6215)

La condizione degli specializzandi come forza lavoro, in totale dispregio alla normativa vigente, è condizione certo non sconosciuta a molte organizzazioni sanitarie con tutti i rischi del caso. Nel caso di Palermo la direzione sanitaria e la direzione generale erano evidentemente totalmente assenti e  tolleranti un’organizzazione di tal fatta.

Il fatto accaduto – di una evidente gravità – nasce proprio dalla carentissima organizzazione apprestata dal Policlinico di Palermo. Ne pagano le conseguenze, principalmente ma non esclusivamente, i due specializzandi – ripetiamo con condanne a pene detentive di cinque anni e di quattro anni e mezzo – rei di avere sbagliato la trascrizione della terapia e di non essersi accorti dell’errore, il medico strutturato risultato totalmente assente da una reale gestione del reparto anche per i suoi numerosi impegni accademici condannato a una pena di quattro anni e mezzo Tutti con le sanzioni accessorie dell’interdizione dall’esercizio della professione.

Anche le due infermiere hanno avuto sanzioni pesantissime dal Tribunale siciliano. L’infermiera che ha preparato non era presente in reparto, ma nell’apposita unità di preparazione (Umaca) che si trovava ben al di fuori del reparto di degenza ma non all’interno del servizio farmaceutico come da normativa, bensì, addirittura, annessa – chissà perché – al reparto di ginecologia! Questa infermiera ha provveduto, visto il dosaggio, le modalità di preparazione e l’impossibilità di preparazione secondo la prescrizione ricevuta a interloquire con “la stanza dei medici” dove era presente la sola specializzanda.

Quest’ultima ha confermato la correttezza della prescrizione e ha dato indicazioni telefoniche per la soluzione del problema: svuotare una soluzione fisiologica da 100 ml per inserire i 90 ml di Vinblastina. La colpa maggiore dell’infermiera preparatrice è stata quella di fare “affidamento sulla disposizione orale di un medico in formazione che non era il prescrittore”.
L’infermiera ha seguito la prassi ospedaliera che prevede rapporti da “servizio a servizio” e che non prevede invece usualmente di rintracciare il medico tramite centralino. L’infermiera preparante ha fatto legittimo affidamento sulla prassi ospedaliera.

All’infermiera somministrante  è stata contestata la mancata attivazione di necessari controlli visto che la paziente aveva fatto notare che usualmente la terapia veniva somministrata in bolo e non tramite flebo.

Alla base del tutto c’è ovviamente la discussione – non approfondibile in questa sede - sui livelli di conoscenza farmacologici che debba avere l’infermiere, quali doveri di intervento in caso di sovradosaggio e di dosaggio abnorme e quali strumenti derivino dalla posizione di garanzia posta in capo all’infermiere stesso in relazione alla prescrizione medica di farmaci.
Per la  coordinatrice infermieristica, non coinvolta nel processo,  il Tribunale ha disposto gli atti alla procura della Repubblica proprio sulla base dei livelli di conoscenza che riteneva di dovere avere e quindi di intervenire una volta richiesto il suo apporto per l’ulteriore approvvigionamento di Vinblastina che non era presente in sede di preparazione.
Il prezzo pagato – pur nella transitorietà di un giudizio di primo grado – è pesantissimo anche per le infermiere che si sono viste condannate a quattro anni.

Le pene pesantissime – verosimilmente mai viste nel massimo edittale - nei confronti degli specializzandi e delle infermiere, l’utilizzo del linguaggio da omicidio volontario, la totale assenza di responsabilità della direzione aziendale e sanitaria, l’enfasi estremistica del lessico del giudice sono, al momento, il lascito di questa storia tragica.

Oltre al lessico il giudice palermitano enfatizza il caso definendolo, come abbiamo visto, il più grave episodio di colpa professionale mai verificatosi al mondo! Questo non corrisponde al vero. La casistica sugli errori legati all’errato dosaggio del cloruro di potassio portano spesso al dosaggio dieci volte superiore a quello prescritto.

La pessima organizzazione è stata alla base di tutta la vicenda e a farne le spese sono stati – medico strutturato a parte – gli anelli più deboli di tutto il sistema.

La gravità del fatto rimane, la tragica morte della giovane donna però non può trasformarsi in una giustizia vendicativa e umorale.
 
Luca Benci
Giurista