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Infermiere contrae epatite c per prelievo con ago senza protezione. Condannato medico competente

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 14/06/2021 vai ai commenti

La SentenzaLeggi e sentenzeProfessione e lavoro

E’ colpevole di lesioni personali colpose nei confronti dell’infermiere che contrae l’epatite C durante un prelievo ematico, il medico competente che omette l’adozione del documento valutazioni rischi.
A stabilirlo la Corte di Appello di Brescia con la sentenza 01 giugno 2021, n. 21521.


I fatti
La Corte di appello di Brescia confermava la pronuncia emessa dal Tribunale di Brescia nei confronti del medico competente, giudicato responsabile del di lesioni personali colpose.
La vicenda riguardava un infermiere che aveva contratto il virus dell’epatite nello svolgimento della propria attività professionale. Era accaduto che il 13 agosto 2013, mentre effettuava un prelievo di sangue venoso su una paziente affetta da HVC e HVB, a causa di un improvviso movimento della mano di quest’ultima, l’infermiere era stato accidentalmente punto dall’ago che stava utilizzando nell’arteria radiale del polso sinistro. 
Ad avviso dei giudici di merito cioè era stato possibile perché in uso all’infermiere era un ago cannula 18G Delta2, sprovvisto di dispositivo di sicurezza. La malattia contratta dal lavoratore era da attribuirsi al medico competente dell’ASL, che aveva omesso di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione del rischio biologico rappresentato, per il personale sanitario addetto all’UO di P.S. del presidio ospedaliero di anche dalla possibile contrazione di patologie infettive per via ematica a causa di punture e ferite con aghi e taglienti contaminati da sangue infetto.


 

Le motivazioni della Corte di Appello
In particolare, la Corte di appello, ribadendo il giudizio del Tribunale, ha ritenuto accertato che la malattia era stata contratta dall’infermiere in occasione del prelievo ematico eseguito sulla paziente infetta; che la durata della malattia era stata superiore a 40 giorni e ciò in quanto egli aveva dovuto sottoporsi ad un trattamento farmacologico necessario per debellare il virus dall’organismo avente effetti collaterali che rendevano rilevanti, ai fini penali, anche le giornate di forzata inattività per ragioni di salute succedutesi nel corso della cura e imputabili a quelli effetti collaterali.


Quanto alla condotta illecita attribuita del medico competene, la Corte d’appello ha ritenuto, accertato che nell’agosto del 2013 non vi erano a disposizione aghi cannula protetti e che la scelta dell’operatore circa l’uso degli aghi cannula o dei dispositivi denominati Butterfly - dotati di meccanismi di protezione - era determinata dall’uso che doveva essere fatto degli stessi e dalle condizioni del paziente, sicché non era una libera scelta dell’operatore quella di fare ricorso agli aghi cannula non protetti piuttosto che al cd. Butterfly.


Per la Corte di appello non era significativo che gli aghi cannula protetti non fossero disponibili presso la farmacia dell’ospedale, posto che al medesimo veniva rimproverato di non aver previsto l’adozione e l’uso degli stessi nel documento di valutazione dei rischi, alla cui stesura era stato chiamato a collaborare in qualità di medico competente. A tal ultimo riguardo, la Corte di appello ha evidenziato che la tematica del rischio biologico conseguente all’utilizzo negli ospedali di aghi senza protezione era ben noto nella normativa specialistica dell’epoca del fatto e che l’affermazione dell’imputato, secondo la quale egli avrebbe ripetutamente segnalato alla direzione sanitaria anche in sede di riunione periodico annuale ai sensi dell’art. 35 TUSL la proposta di adottare quei presidi suggeriti dall’evoluzione della tecnologia e dunque gli aghi protetti, non trovava corrispondenza nella documentazione acquisita agli atti.
Per tali motivazioni il ricorso del medico competente è infondato.